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La funzione di X per geolocalizzare gli utenti è diventata l’ennesima arma nelle mani della disinformazione

A causa della sua mancanza di precisione, lo strumento ha alimentato la diffusione di disinformazione e incertezza nella piattaforma

18 dicembre 2025
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Da fine novembre 2025 X ha aggiunto la funzione “About This Account” (“informazioni su questo account”). Si tratta di una scheda che rende pubblico un elemento prima non visibile: il Paese (o la macro-regione) in cui un account è considerato “based”, cioè da cui opera, oltre alla data di iscrizione e allo storico dei cambi di username.

L’annuncio è arrivato dal responsabile del prodotto Nikita Bier, che l’ha presentata come misura per «l’integrità della piazza pubblica» e contro bot e impersonificazioni. Nelle primissime ore, però, X ha fatto marcia indietro su una parte della funzione: inizialmente la scheda mostrava anche il Paese di creazione dell’account, ma l’azienda lo ha rimosso dopo che Bier stesso ha ammesso che quel dato «non era al 100% affidabile», soprattutto per profili vecchi e con storie di accesso complesse. La promessa ufficiale, ripetuta nei giorni del rilascio, è stata una precisione del “«9,99%» dopo gli aggiornamenti.

La procedura è semplice e uguale per tutti. Per leggere le informazioni bisogna cliccare sulla data “Joined…” (iscrizione: …) sul profilo: si apre una scheda che indica dove l’account è basato, quante volte ha cambiato username e in che modo è “collegato” a X, per esempio tramite App Store USA o Google Play India. Proprio qui sta una delle novità più rilevanti emerse nelle settimane successive al lancio: X non sta creando un’identità certificata in senso forte, come un documento digitale, ma sta mostrando una sintesi di segnali tecnici e amministrativi che la piattaforma già possiede. La scheda, insomma, è un’etichetta di trasparenza, non un timbro notarile, e proprio a causa della sua mancanza di precisione lo strumento ha alimentato la diffusione di disinformazione e incertezza nella piattaforma. 

Che cosa c’è “dietro” la localizzazione e perché non è una prova assoluta

X non ha pubblicato un documento tecnico completo sul calcolo della localizzazione. Quello che emerge da fonti giornalistiche è che la voce sulla geolocalizzazione “based” deriva dall’incrocio di più segnali, tra cui indirizzo IP (cioè l’identificativo di rete che suggerisce da quale Paese ti stai connettendo) e altri elementi come la regione degli store (App Store/Google Play) e i dati di utilizzo. Euronews, per esempio, riporta che X, oltre all’ IP, e “app store region” (la regione dell’app store da cui si scarica l’app di X da cui ci si collega), usa anche “posting behaviour” (il comportamento dell’utente sulla piattaforma) per stabilire l’etichetta mostrata. Secondo quanto analizzato da TechCrunch, gli utenti possono scegliere se mostrare il Paese o soltanto la macroregione/continente. Non è un’opzione limitata ai Paesi “a rischio” (dove si può essere perseguiti penalmente, o persino condannati a morte, per le proprie idee o per il proprio orientamento sessuale) come la Russia o l’Iran: molti utenti negli Stati Uniti hanno a disposizione la stessa impostazione. 

VPN, proxy e l’avviso “potrebbe non essere accurato”

Una localizzazione basata su segnali probabilistici da un lato offre un indizio utile su chi alimenta un dibattito pubblico; dall’altro, può sbagliare o essere manipolata. Proprio su questa fragilità si innesta il tema VPN. Una VPN (Virtual Private Network, rete privata virtuale) è un servizio che instrada il traffico attraverso un server remoto, cifrando la connessione e facendo apparire l’utente come se si collegasse da un altro Paese. 

È uno strumento usato sia per privacy e sicurezza sia, in alcuni casi, per eludere restrizioni o mascherare la provenienza. Con “About This Account”, X ha introdotto anche un messaggio di cautela: su alcuni profili appare un avviso, nella forma di un cerchio con dentro un punto esclamativo, che indica che la localizzazione «potrebbe non essere accurata» perché l’account usa VPN o perché alcuni provider usano proxy (un intermediario di rete) automaticamente. La misura ha attirato critiche di esperti e aziende del settore, che temono l’effetto collaterale di “segnalare” come sospetti utenti che usano VPN per ragioni legittime, come giornalisti e attivisti in Paesi dove la libertà di stampa e i diritti fondamentali non sono garantiti.

Questa scelta crea un paradosso operativo. Chi diffonde disinformazione in modo professionale ha spesso già infrastrutture per cambiare IP, ruotare proxy e gestire accessi da più Paesi. Chi usa una VPN per proteggersi dalla sorveglianza rischia invece di ritrovarsi con un’etichetta che, in certi contesti, può diventare un marchio. Anche per questo X e Nikita Bier hanno insistito su due rimedi: la possibilità di mostrare solo la macro-regione e un aggiornamento “ritardato e randomizzato” della localizzazione per ridurre il rischio di tracciamento in tempo reale.

Le critiche più dure sono arrivate dalle organizzazioni per i diritti umani. Human Rights Watch, in un post del 3 dicembre sul suo sito, ha sostenuto che la divulgazione della localizzazione «minaccia la sicurezza» di utenti vulnerabili e può facilitare ritorsioni contro dissidenti e minoranze, chiedendo a X di disattivare la funzione o renderla realmente facoltativa e sicura. È una critica che non nasce dal nulla: la storia recente del social di Elon Musk ha mostrato più volte come strumenti tecnici possano essere usati come leve di pressione politica, anche solo perché riducono l’anonimato. Secondo diverse ricostruzioni, ha spinto utenti in contesti repressivi a parlare di “forced doxxing” (divulgazione forzata e indesiderata di informazioni personali sensibili) e di possibili ripercussioni politiche. 

C’è poi un secondo esempio, che riguarda meno la geolocalizzazione e più l’uso tecnico di strumenti repressivi: in Turchia X ha limitato l’accesso all’account del sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu dentro i confini del Paese, dopo un ordine del tribunale turco: una misura applicata tramite geoblocking, cioè visibilità diversa a seconda di dove ti connetti (i suoi post sono visibili alle persone collegate da ovunque, tranne che dalla Turchia). È lo stesso schema che, secondo analisi e monitoraggi, si ripete a ondate contro account critici verso il governo turco. 

I pattern emersi: disinformazione “a spunta blu” e cluster geografici

A fare notizia, nelle settimane successive al lancio, non è stata la tecnologia in sé, ma ciò che questa ha fatto emergere relativamente alla disinformazione. Numerosi account pro-Trump, con foto del presidente USA, bandiere americane e tono da patrioti americani, risultano basati in aree come Asia meridionale, Africa ed Europa orientale, pur parlando ogni giorno di politica interna americana a centinaia di migliaia di follower. Oltre che alla propaganda, il fenomeno potrebbe essere collegato a un incentivo economico: su X la monetizzazione premia l’engagement e alcuni network sarebbero meno “operazioni politiche” e più fabbriche di “rage bait”, contenuti polarizzanti pensati per far commentare e condividere e, dunque, far guadagnare chi crea quei contenuti attraverso la monetizzazione offerta dall’accesso alla versione premium della piattaforma.

Sul fronte europeo, il pattern è analogo: profili che spingono narrazioni di estrema destra su politica e migrazioni in Europa risultano basati in Asia e Australia. È il caso di un account chiamato “Make Europe Great Again” (oltre 17mila follower) che, pur pubblicando contenuti a favore di “mass deportation” e chiusura delle frontiere contro persone arabe e migranti, risultava basato nel Sud-Est asiatico secondo il sistema di X. Un secondo profilo, con lo stesso nome, “Make Europe Great Again”, era localizzato in Vietnam e pubblicava post su teorie complottiste anti-trans e pubblicava insulti razzisti legati al dibattito su migrazioni e identità in Francia e in Europa. Un altro esempio è “Make Europa Snow”, un account che diffonde messaggi di suprematismo bianco e slogan come “Make Germany Great and White Again” e che, sempre secondo la scheda di X, risultava basato in Australia. 

C’è poi un effetto collaterale e piuttosto paradossale: la disinformazione sulla disinformazione. NewsGuard, organizzazione che si occupa di contrasto alle fake news, ha rilevato che alcuni utenti stanno diffondendo screenshot falsi della scheda per provare che un account è basato all’estero quando non lo è, trasformando la nuova trasparenza in un’arma di delegittimazione. È successo ad alcuni account di palestinesi, accusati di non essere davvero a Gaza quando in realtà lo erano. Il quotidiano israeliano Haaretz ha raccontato la vicenda del giornalista palestinese Motasem A. Dalloul, accusato pubblicamente di essere “in Polonia” dopo che la scheda di X lo indicava così, e che ha risposto pubblicando un video dalla Striscia per contestare la falsa geolocalizzazione. Al Jazeera ha ricostruito come, dopo il rilascio di questa funzione di X, alcuni utenti abbiano iniziato a “smascherare” presunti profili gazawi basati all’estero, ma nello stesso dibattito sono emerse contestazioni sull’affidabilità del dato e sul rischio che l’etichetta venga usata per colpire attivisti e testimoni sul campo. Lo strumento presta il fianco ad accuse difficili da smentire: l’informazione appare come un dato tecnico oggettivo quando in realtà può essere distorta da VPN, proxy, accessi multipli o errori di inferenza della piattaforma. 

Che cosa cambia, davvero, dopo le ultime correzioni

Rispetto alla prima versione, oggi “About This Account” è meno ambiziosa ma più difendibile. L’elemento più contestato, il Paese di creazione dell’account, è stato rimosso (nel caso della serie storica legata all’attività dell’account)  perché troppo fallibile. È rimasto il “based”, che sta già producendo valore per giornalisti e ricercatori, perché rende più facile individuare incongruenze e cluster geografici in reti di account con spunta blu che amplificano contenuti polarizzanti. È arrivata anche una segnalazione esplicita dell’imprecisione dello strumento da parte di X stessa quando ci sono VPN/proxy attivi, che però apre un problema di sicurezza per chi usa strumenti di protezione della privacy. Se in un primo momento la verifica geografica ha disorientato i disinformatori e i loro network di riferimento, oggi gli attori più organizzati hanno già imparato a sfruttarne le falle, mentre il rischio di errori, abusi e “caccia alle streghe” è ancora presente.

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