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La shitstorm su Cecilia Sala e le insidie del doxing su Internet

Svelare pubblicamente l’identità di account anonimi ha delle ripercussioni considerevoli, che hanno a che fare con il modo stesso in cui abitiamo il web

27 giugno 2025
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Questo articolo si può ascoltare anche in formato audio nel nostro podcast Veramente

C’è una scena, nella serie TV “The Young Pope” diretta da Paolo Sorrentino, che esalta le virtù del non comparire in pubblico e lo fa menzionando alcune personalità pubbliche che hanno costruito parte del proprio successo proprio sul mistero generato dalla scelta di non mostrarsi o di non svelare la propria identità: pensate ad esempio allo scrittore JD Salinger, allo street artist Banksy e ai Daft Punk o, per restare in Italia, a Mina ed Elena Ferrante.

Ma quella di non metterci la faccia non è sempre una scelta. Lo sanno bene gli attivisti e le attiviste impegnati in contesti governati da regimi autoritari, che ogni giorno rischiano la vita per le proprie battaglie e che per questo spesso scelgono di veicolare i propri messaggi attraverso account anonimi sui social media. Senza questo stratagemma, semplicemente non potrebbe esistere alcuna voce critica a sostegno della comunità LGBT+ negli oltre 60 Paesi in tutto il mondo che ancora oggi criminalizzano l’omosessualità – e tutti noi saremmo persone decisamente meno informate. 

Insomma, l’anonimato sul web è una cosa seria ed estremamente importante, dalla quale dipendono le vite di persone, quando non addirittura di intere comunità. È una premessa che vale la pena fare alla luce della storia che stiamo per raccontare, che coinvolge la giornalista Cecilia Sala e che ha a che fare proprio con la violazione di questo diritto digitale. Ma partiamo dall’inizio.

La campagna social contro Cecilia Sala

Il 18 giugno scorso, la giornalista italiana Cecilia Sala – cronista di esteri e voce del podcast “Stories” – ha pubblicato sul suo account X un video che mostra alcuni passanti a cui viene chiesto di prendere un caffé insieme alla persona che le sta riprendendo: c’è chi accetta, e chi declina gentilmente perché ha altri impegni, ma tutte le persone coinvolte sono vestite con abiti casual. Questo particolare è importante alla luce del testo che accompagna quel video, scritto dalla stessa Sala e che recita: «Cosa incontri camminando per le strade di Teheran, per chi in televisione ce la racconta come il “medioevo” rimanendo serio».

Nei commenti a quello stesso post, Sala se la prendeva con la rappresentazione dell’Iran che, soprattutto in queste ore, imperversa sui media. Non del regime degli ayatollah, attenzione, che come scrive Sala impicca tre iraniani al giorno, ma della popolazione civile che popola le strade di Teheran. Scrive Sala: «La realtà che vive la popolazione è molto diversa da quella che gli ayatollah vorrebbero, gli iraniani si divertono quanto noi, forse più di noi – accettano il rischio di pagare un prezzo altissimo per farlo. Alcuni muoiono impiccati, ma tanti – milioni – continuano a pensare che correre il rischio ne valga la pena». 

Comunque la si pensi, quella di Sala è la testimonianza di una persona che ha raccontato l’Iran da cronista e che per questo motivo ha passato venti giorni in un carcere di massima sicurezza. Eppure tanto è bastato per scatenare una shitstorm di dimensioni inedite, che mentre scriviamo non si è ancora affievolita. 

Il primo punto contestato a Sala riguarda l’autenticità del video, che secondo diversi utenti dei social sarebbe stato girato non in Iran bensì a Tel Aviv. Naturalmente questo non è vero: il video pubblicato da Cecilia Sala era un collage di clip realizzate dal content creator iraniano Amir Fazeli, conosciuto nel Paese per la promozione di bar e ristoranti di Teheran tramite interviste a passanti, che poi pubblica sui propri canali social. A testimonianza di ciò, tutte le insegne e le targhe inquadrate nel video sono in persiano e non in ebraico. 

L’equivoco riguardante Tel Aviv è sorto a partire da un post dell’account X Hamas Atrocities, che condividendo poche ore dopo lo stesso video ha commentato, in inglese “Many Iranians are super cool people. They will feel right at home in Tel Aviv. Let’s get the mullahs out of the way!”. Che in italiano si traduce con “Molti iraniani sono persone davvero fantastiche. A Tel Aviv si sentiranno come a casa. Togliamo di mezzo i mullah!”. Si è trattato insomma di un semplice – e anche piuttosto imbarazzante – errore di traduzione, che ha finito per generare un notevole caso di disinformazione. 

La seconda e più grave accusa mossa a Sala riguarda invece il suo essere un presunto agente straniero al soldo dell’Iran, assoldata per diffondere in Italia propaganda per conto degli ayatollah. Si tratta naturalmente di un’accusa totalmente infondata, ma incredibilmente pericolosa perché potenzialmente in grado di mettere a repentaglio la vita della giornalista, che viaggia in Medio Oriente per mestiere. Ed eccoci qui arrivati al punto, perché per difendersi da queste illazioni, Sala ha rivelato l’identità di due account anonimi che avevano contribuito a diffondere questa narrazione. 

È ciò che in gergo si definisce doxing ed è una pratica che apre la strada a una serie di considerazioni piuttosto complesse. 

Doxare o non doxare

Tecnicamente il doxing può essere definito come la pratica di cercare e diffondere pubblicamente online informazioni personali e private, un comportamento che ha sia ripercussioni etiche che legali.

Nel caso specifico, Cecilia Sala ha rivelato le generalità di due account anonimi, “Toni Baruch” e “Gennarino o‘Mossad”, i cui nomi e cognomi erano accessibili online attraverso una breve e non troppo complessa ricerca. Ma questo non cambia nulla ai fini della normativa in materia. Il GDPR, il regolamento generale europeo sulla protezione dei dati, prevede infatti il divieto di divulgare pubblicamente i dati personali di una persona, anche laddove questi fossero stati precedentemente resi pubblici in altre circostanze e per altre finalità. Esisterebbe teoricamente una discriminante – ossia un’eccezione – per i giornalisti che si servono di questa pratica per ragioni di interesse pubblico, ma sarebbe tutto da dimostrare sia l’interesse della vicenda che l’uso giornalistico dei dati, dal momento che tutto questo è avvenuto su X.

Ma veniamo ora all’aspetto etico, che è probabilmente l’aspetto più interessante di tutta questa vicenda. Come ci si comporta quando l’anonimato è prerogativa di odiatori, propagandisti e avvelenatori di pozzi?

È interessante notare che esiste una nobile tradizione di attivismo che si serve del doxing come strumento per difendersi e difendere lo spazio pubblico da minacce, molestie e discorsi d’odio. È ciò che in gergo si definisce “vigilantismo digitale” o “digilantismo”. L’esempio più celebre di questa pratica risale al 2014, quando il gruppo di hacktivisti Anonymous lanciò l’operazione OpKKK con l’obiettivo di rivelare i nomi di circa 350 appartenenti al Ku Klux Klan – gruppo segreto statunitense con finalità di terrorismo a stampo razzista – così che questi non potessero più nascondere le proprie convinzioni nella vita di tutti i giorni.

Ma i casi di vigilantismo digitale sono innumerevoli e all’ordine del giorno, quasi tutti messi in atto da gruppi di attivisti organizzati e finalizzati a mettere alla berlina propalatori di discorsi d’odio misogini, omofobi e xenofobi. Esistono persino vere e proprie comunità che utilizzano lo strumento del doxing per divulgare pubblicamente i nomi di chi commette violenza domestica, reato spesso molto difficile da individuare a causa della scarsa propensione alla denuncia delle vittime.

La dinamica che stiamo raccontando incontra ostacoli per certi versi simili, dal momento che la diffamazione online è facilmente dimostrabile, ma non altrettanto facilmente punibile. In presenza di post ingiuriosi pubblicati da account anonimi, infatti, sarà necessario risalire all’identità della persona fisica che si cela dietro il nickname e, laddove questo non fosse possibile, si aprirebbe una complessa procedura che potrebbe portare a una rogatoria, ovvero una richiesta formale inviata dall’autorità giudiziaria alla piattaforma social. 

Il punto è che la scelta non può essere tra vigilantismo digitale e ricorso alla polizia postale. Dovrebbe esistere uno strumento intermedio ed è esattamente per questo che le piattaforme social si sono dotate nel tempo di team di moderazione. Il problema è che X, dall’arrivo di Elon Musk, ha smantellato ogni pratica di moderazione e questo per ragioni essenzialmente ideologiche.

La storia della shitstorm su Cecilia Sala ha avuto una coda inattesa, ma per certi versi paradigmatica della situazione che stiamo descrivendo. Nei giorni successivi agli avvenimenti, infatti, Riccardo Puglisi, docente di scienza della finanze all’università di Pavia, ha avviato una personale campagna denigratoria nei confronti della giornalista, ripescando dai suoi account social contenuti pubblicati tra il 2013 e il 2017, e cioè da quando Sala era da poco maggiorenne. I post ripescati da Puglisi sembrano essere stati scelti con l’obiettivo di descrivere Sala come una simpatizzante neonazista, ma sono stati totalmente decontestualizzati, quando non direttamente privati di elementi che ne avrebbero chiarito la natura. 

Ad esempio Puglisi mostra l’immagine, pubblicata da Cecilia Sala nel 2014, di un’aquila stilizzata su sfondo nero che regge tra le zampe una svastica nazista, omettendo il particolare che si trattava di un meme piuttosto popolare al tempo, che ironizzava sull’ambigua simbologia del brand d’abbigliamento BOY LONDON. E ancora, Puglisi ha riportato alla luce la foto, sempre pubblicata dalla giornalista nel 2014, di una paperella di gomma vestita come un ebreo ortodosso. Ma quello è un semplice gadget in vendita al Museo dell’Olocausto di Berlino. Il docente universitario ha anche ripreso un post pubblicato nel 2016 su Facebook, in cui la giornalista scriveva “Daje SS Lazio” per poi specificare “e per SS intendo Schutzstaffel”, ovvero l’organizzazione paramilitare nazista. Peccato che Puglisi abbia consapevolmente tagliato dallo screenshot un ulteriore commento di Sala, sempre risalente allo stesso giorno, in cui raccontava che il post era stato pubblicato a sua insaputa da un collega che aveva approfittato della sua assenza al computer. 

Insomma, calunnie e disinformazione non sono purtroppo un’esclusiva degli account senza nome sui social network, contrariamente a quanto sostiene quella parte della politica che puntualmente, ogni anno, torna alla carica con l’idea di abolire l’anonimato in Rete. D’altra parte esiste davvero una questione aperta con gli odiatori di professione che si nascondono dietro questo importante diritto digitale, solo che non può e non deve essere risolta per via normativa né – in un mondo ideale – con il vigilantismo sui social. Esiste una terza via, che ha a che fare con la responsabilizzazione delle piattaforme, con l’appello a mantenere un ecosistema digitale pulito e accessibile a tutti. Diritti che credevamo consolidati fino a non troppo tempo fa, prima che gli uomini più potenti al mondo ci convincessero del fatto che tutto questo cozzasse con l’assoluta libertà di parola.

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