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Sulle ONG che operano in mare circola ancora tanta disinformazione

“Taxi del mare” e “alleate degli scalfisti” sono solo alcune delle fake news che da anni colpiscono le ONG che salvano i naufraghi

27 giugno 2025
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«I diritti umani devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti. Diversamente dovremmo chiamarli privilegi». Questa è la frase che si legge sul fianco della Life Support, la nave di ricerca e soccorso in mare della ONG Emergency, salpata a giugno dal porto di Siracusa, in Sicilia. Direzione: le acque internazionali del Mediterraneo. 

«Il Mediterraneo centrale è molto grande e le azioni di Stati come Italia, Grecia o Malta non bastano», racconta a Facta Jonathan Naní La Terra, il SAR team leader (il punto di riferimento dell’equipaggio predisposto ai salvataggi), camminando verso la prua della nave. «C’è una parte del mare in cui la presenza delle ONG come Emergency è necessaria perché diversamente le persone migranti che provano ad attraversare si ritroverebbero sole e rischierebbero di annegare».  

Trentuno sono le missioni portate a termine con successo (la prima a dicembre 2022) dalla Life Support nel Mar Mediterraneo centrale, che, da più di dieci anni, costituisce la rotta migratoria più letale al mondo: dal 2014 al 2024 l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) ha contato più di 28mila persone morte o scomparse nel mare.

A causa del suo lavoro di salvataggio, il team di Emergency (così come quello delle altre ONG che operano nel Mediterraneo) è spesso messo sotto accusa: collaborazione con i trafficanti, azioni al di fuori del diritto internazionale e autoritarismo sono solo alcune delle imputazioni che vengono fatte dalla politica e da parte dell’opinione pubblica alle organizzazioni, ma senza vere prove a sostegno. 

Le ONG alleate dei trafficanti?

“Taxi del mare”: questa è la definizione dispregiativa che aveva coniato nel 2017 l’allora vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, allora uomo simbolo del Movimento 5 Stelle, riguardo le ONG. Da anni, una delle credenze più diffuse sulle ONG è che queste collaborino con gli scafisti, un’ipotesi ripresa e diffusa da diversi partiti politici italiani, tra cui la Lega di Matteo Salvini. Secondo questa tesi, le organizzazioni umanitarie si accorderebbero direttamente con i trafficanti, lucrando quindi sulle vite umane e incentivando le partenze, pratiche che permetterebbero loro di identificare facilmente i luoghi delle emergenze. 

«È solo la narrazione frutto di una politica populista», dice Naní La Terra. La criminalizzazione delle ONG, soprattutto da parte della politica, è effettivamente in aumento, come è stato dimostrato dal media monitoring di PICUM – ONG che si occupa del rispetto dei diritti umani delle persone senza documenti –, che nel suo ultimo report ha confermato una tendenza in crescita: nel 2024 almeno 142 persone hanno affrontato procedimenti penali o amministrativi per aver agito in solidarietà con i migranti nell’Unione europea. L’anno precedente erano 117. 

Queste accuse infondate si scontrano però con la realtà dell’operato delle ONG, che è fortemente regolamentato dal diritto internazionale. Le ONG agiscono infatti quasi sempre (salvo situazioni di emergenza) nelle acque internazionali delle zone SAR (Search And Rescue) dopo aver ricevuto l’allarme della presenza di un’imbarcazione in difficoltà da parte delle autorità predisposte. Le zone SAR comprendono le acque territoriali (12 miglia dalla costa) e la zona contigua (da 12 a 24 miglia), ma anche alcune aree considerate acque internazionali. Ci sono quindi Stati, tra cui l’Italia, che gestiscono una zona SAR che comprende zone di mare su cui hanno sovranità (le acque territoriali), altre su cui esercitano una sovranità parziale (la zona economica esclusiva) e altre ancora su cui non esercitano nessuna sovranità (acque internazionali) ma in cui hanno una responsabilità nelle emergenze in mare. 

È nelle zone SAR che agiscono le ONG per far fronte all’insufficienza dei soccorsi portati avanti dalla guardia costiera e da Frontex (l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera). Nel 2024 le ONG nel Mediterraneo hanno salvato il 18 per cento di tutte le persone che sono state portate in salvo: «quello che facciamo noi è colmare un vuoto», dice il SAR team leader della Life Support.

Le ONG non vengono quindi avvisate direttamente dai trafficanti della presenza di barche in difficoltà. «Noi ci rechiamo nella zona SAR, dove facciamo pattugliamento», spiega nel dettaglio Naní La Terra. «A quel punto possiamo incontrare una barca in pericolo in due modi: o vedendola dal nostro ponte di comando oppure riceviamo una segnalazione dai centri di coordinamento marittimo per la ricerca e soccorso o dalla hotline Alam Phone», un progetto indipendente nato nel 2014 proprio con lo scopo di supportare le operazioni di salvataggio in mare dei naufraghi. «Appena ricevuta la segnalazione», aggiunge il SAR team leader, «ci prepariamo al salvataggio». 

A tal proposito vale la pena sottolineare che nel corso degli anni sono state portate avanti diverse inchieste sul legame tra ONG e trafficanti, ma nessuna ha mai comprovato una collaborazione, tantoché sono state archiviate. 

Il respingimento delle persone migranti in Libia: una pratica legale o criminale?

L’accusa infondata che vede le ONG alleate degli scafisti si accompagna spesso a una seconda falsa credenza, secondo la quale le persone migranti, spesso salvate dalle ONG, se provenienti dalla Libia dovrebbero essere riaccompagnate nel Paese africano. 

Questa narrazione si scontra però, ancora una volta, con quanto stabilito dal diritto internazionale che, a riguardo, è molto chiaro. Stabilisce infatti che tutte le persone salvate debbano essere accompagnate nel primo porto sicuro disponibile. Il diritto internazionale definisce «porto sicuro» quello in cui «i sopravvissuti non si trovano più esposti ad un rischio per la loro vita e possono accedere ad alcuni beni e servizi fondamentali (cibo e acqua, rifugio e riparo, cure mediche), nonché […] a tutte le procedure per poter ottenere un passaggio verso la destinazione finale o la più vicina, ad esempio potendo presentare richiesta di asilo». 

È evidente che la Libia non rispetti questa definizione a causa delle frequenti e continue violazioni dei diritti umani e delle violenze documentate perpetrate sulla popolazione migrante. «Non possiamo far sbarcare le persone migranti in Libia», conferma Naní La Terra, «perché è ovvio che i diritti umani non sono tutelati». Nel 2024 anche la Corte di Cassazione – il più alto organo della giurisdizione italiana con il compito di assicurare l’esatta osservanza e interpretazione della legge –, all’interno di un processo contro il comandante di un rimorchiatore italiano che aveva soccorso 101 migranti e li aveva poi affidati a una motovedetta libica, ha decretato che la Libia non è un porto sicuro. 

Dove devono sbarcare le ONG?

In base a quanto stabilito dal diritto internazionale, anche se vengono intercettati vicino alle coste libiche, le ONG devono far sbarcare i naufraghi nel porto sicuro più vicino e disponibile, che spesso significa un porto europeo. Il diritto internazionale smentisce così una terza narrazione disinformativa molto diffusa, secondo la quale le ONG devono attraccare la nave nel Paese di cui battono bandiera (nel caso della Life Support: Panama). Questa espressione significa che la nave è considerata a tutti gli effetti territorio della bandiera issata. Emergency, ad esempio, ha scelto il territorio di Panama perché, spiega il SAR team leader, è uno Stato che «appartiene a una whitelist, che rispetta una serie di standard elevati e promuove la cooperazione nel raggiungimento di diverse missioni internazionali». 

La stessa legge italiana nega questa ricostruzione. Il decreto Piantedosi (2 gennaio 2023) sulle disposizioni per la gestione dei flussi migratori impone infatti alle navi che effettuano un soccorso di recarsi il più velocemente possibile nel porto assegnato. Nel decreto si legge che, tra le condizioni del recupero e soccorso in mare, rientra il fatto che «il porto di sbarco assegnato dalle competenti autorità sia raggiunto senza ritardo per il completamento dell’intervento di soccorso». «Guardando la mappa», spiega il SAR team leader della Life Support, «nel Mediterraneo centrale il primo porto sicuro da raggiungere velocemente è quasi sempre un porto italiano. Non possiamo portare i naufraghi in altri porti». 

In base a quanto detto, sia il diritto internazionale che il decreto Piantedosi smentiscono così un’ultima fake news diffusa, secondo la quale siano le stesse ONG a definire i porti di sbarco. «Bisogna sottolineare che non sono mai le ONG a decidere in che porto attraccare», puntualizza Naní La Terra, «ma le autorità marittime competenti. Noi ci rifacciamo a loro».

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