Perché l’Italia non è un Paese per donne, dati alla mano
Non solo femminicidi: i numeri descrivono un contesto in cui la disparità è presente in molti ambiti della vita quotidiana delle donne, dal lavoro all’istruzione, fino alla salute
Sabato 18 novembre 2023 la Procura di Venezia ha annunciato di aver trovato, nei pressi del lago di Barcis, in provincia di Pordenone, il corpo di Giulia Cecchettin, per il cui femminicidio è accusato l’ex partner, arrestato in Germania il 19 novembre.
Tra il 1° gennaio e il 19 novembre 2023 sono state uccise 106 donne, 87 di queste in ambito familiare e 55 da partner o ex partner. Come aveva sottolineato Maria Giuseppina Muratore, responsabile Istat del gruppo di lavoro sulla violenza di genere, in un precedente approfondimento pubblicato su Facta, ogni anno le donne uccise da partner o ex partner sono tra il 55 e il 60 per cento del totale, mentre per gli uomini questo dato è fisso al 3 per cento.
Il “femminicidio” è stato definito dalle Nazioni Unite come un’uccisione intenzionale con una motivazione legata al genere e che può essere motivato da «ruoli di genere stereotipati, discriminazione nei confronti di donne e ragazze, relazioni di potere ineguali tra donne e uomini o norme sociali dannose». Tuttavia, ad oggi non esiste una definizione comune di “femminicidio” e in Italia non è previsto un reato ad hoc, ma questo tipo di violenza rientra nella categoria degli omicidi.
Nonostante ancora non esista una formulazione comune per definire il femminicidio, è possibile affermare che questo rientra nel fenomeno più ampio della violenza di genere, cioè quella che viene esercitata in varie forme dagli uomini nei confronti delle donne come risultato degli stereotipi legati ai ruoli di genere che vengono tradizionalmente veicolati dalla società. Il femminicidio, infatti, è l’espressione massima di una discriminazione che le donne vivono costantemente in molti ambiti della vita. Come ha spiegato a Facta Tatiana Baggioni, avvocata giuslavorista e presidente dell’associazione Avvocati giuslavoristi italiani (AGI), «i femminicidi sono la punta di un iceberg che però è una montagna molto, molto più profonda» formata da squilibri di potere ed economici che «si ripercuotono anche sulla violenza, sia domestica ma in generale sulla violenza nei confronti delle donne».
Il Women Peace and Security Index 2023 cioè un indice messo a punto dal Peace Research Institute di Oslo insieme al Georgetown University’s Institute for Women che attraverso 11 indicatori esamina e quantifica diverse dimensioni di inclusione delle donne, ha messo l’Italia al 34esimo posto nel mondo e addirittura al 24esimo in Europa. Come dimostrano i dati, infatti, l’Italia non è (ancora) un Paese per donne e la strada verso l’uguaglianza di genere, che passa dalla parità degli stipendi, uguale rappresentanza nella politica e nelle posizioni di potere, tutela dei diritti e assenza di violenza e discriminazioni, sembra essere ancora lunga.
Gender pay gap: la disparità sul lavoro Uno degli ambiti in cui la disparità tra uomini e donne è più evidente è quello del lavoro. Nell’Unione Europea la retribuzione oraria lorda media dei dipendenti maschi è superiore del 13 per cento rispetto a quella delle donne, e questo significa che per ogni euro guadagnato da un uomo, una donna ne guadagnerà solo 0,87. Tale divario retributivo di genere, o gender pay gap (GPG), equivale a una differenza di circa un mese e mezzo di stipendio all’anno. La Commissione Europea ha stabilito che l’Equal pay day, cioè la data che simboleggia quanti giorni in più le donne devono lavorare fino alla fine dell’anno per guadagnare quello che gli uomini hanno guadagnato nello stesso periodo, nel 2023 è stato il 15 novembre.
Secondo i dati riportati dal Global Gender Gap Index del 2023, del World Economic Forum (WEF), l’Italia si trova al 79esimo posto su un totale di 146 Paesi e la sua posizione rispetto all’indice del divario globale di genere è peggiorata tra il 2022 e il 2023. Se si guarda alla parità nella partecipazione e nelle opportunità economiche la situazione si aggrava ancora di più e il nostro Paese scivola alla posizione numero 104, ponendosi sotto alla media globale.
Come ha spiegato a FactaNicoletta Pannuzi, dirigente del Servizio sistema integrato lavoro, istruzione e formazione dell’Istat, «il differenziale retributivo di genere» e quindi il gender pay gap «misura la differenza retributiva di uomini e donne ed è calcolato come differenza percentuale tra la retribuzione oraria di uomini e donne rapportata a quella maschile». Come ha spiegato Pannuzi, nel 2021, cioè l’ultimo anno per cui l’indicatore è disponibile, «il differenziale retributivo di genere è pari al 6,1 per cento». Ma cosa significa quindi questo dato? Significa che «le donne vengono mediamente retribuite il 6,1 per cento in meno degli uomini».
Questo valore, però, non può essere considerato come univoco e descrittivo di tutta la realtà, perché varia se guardiamo a settori specifici del mercato del lavoro. Ad esempio, «se ci limitiamo a considerare il comparto a controllo privato, il GPG italiano sale al 15,5 per cento». Ma non solo, il divario retributivo si allarga con l’età, durante la carriera e parallelamente ai crescenti bisogni familiari, mentre è piuttosto basso quando le donne entrano nel mercato del lavoro. Sempre secondo quanto riportato da Pannuzi, infatti, si passa da un valore pari al 3 per cento per gli under 25, al 9,2 per cento per chi ha tra i 55 e i 64 anni e raggiunge il valore più elevato, pari al 15,8 per cento, tra i lavoratori con almeno 65 anni di età.
Il gender pay gap, inoltre, aumenta «all’aumentare del livello professionale, soprattutto per le professioni in cui la presenza femminile è contenuta». Tra i dirigenti, infatti, il gender pay gap «è più elevato e addirittura è superiore al 25 per cento, mentre scende al valore minimo proprio tra le professioni non qualificate». E se consideriamo l’andamento per titolo di studio, troviamo la stessa evidenza, cioè il valore più elevato del differenziale distributivo tra i laureati. Quindi, le differenze retributive tra uomini e donne si legano anche al fatto che le donne sono più spesso occupate in settori con salari più bassi.
Il Parlamento Europeo ha individuato le cause di tale divario retributivo nei ruoli di genere che vengono tradizionalmente veicolati dalla società, come il fatto che esiste una sovra-rappresentanza di donne in settori relativamente a basso salario – come l’assistenza, la sanità e l’istruzione – e che queste occupano meno posizioni dirigenziali.
Paola Villa, economista e docente presso il Dipartimento di Economia e management dell’Università degli Studi di Trento, ha chiarito a Facta che è importante contestualizzare i dati per capire davvero le differenze che esistono nell’ambito del lavoro tra uomini e donne. Per comprendere le ragioni sottostanti alla reale discrepanza di partecipazione nel mondo del lavoro di uomini e donne bisogna guardare sì alle più basse retribuzioni orarie delle donne, ma anche al loro minore monte ore lavorato in un anno e la minore anzianità contributiva. E per spiegare questi fattori occorre osservare le scelte fatte nel corso della vita adulta da donne e uomini, condizionate dalla persistenza di norme sociali e stereotipi.
Secondo Villa i principali fattori che rimandano alle differenze, molto marcate, tra uomini e donne vanno dalle scelte che riguardano l’istruzione, al più difficile inserimento delle giovani donne nel lavoro retribuito, alla penalizzazione della maternità nel mercato del lavoro, e, infine, alle diverse opportunità che uomini e donne hanno nelle progressioni di carriera. «Se noi guardiamo all’Italia, il differenziale salariale non è molto elevato» ha evidenziato Villa, «questo perché nel nostro Paese abbiamo molte donne che nel mercato di lavoro non ci entrano proprio». Come si legge nell’ultima Relazione annuale della Banca d’Italia, infatti, in Italia nel 2022 il tasso di occupazione femminile nella fascia di età 15-64 anni era pari al 51,1 per cento, un valore elevato nel confronto con gli ultimi tre decenni, ma inferiore di 18,1 punti percentuali a quello maschile. Questo divario è molto superiore a quello dei principali Paesi europei e dipende da una minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro, la più bassa nell’Unione europea.
Se per la realizzazione di sé e per fare scelte libere e autonome, l’indipendenza economica è la base, l’inoccupazione e il differenziale salariale contribuiscono a rendere le donne più deboli in una società in cui gli uomini hanno un’autonomia lavorativa ed economica più elevata.
Il lavoro non retribuito che pesa sulle spalle delle donne Un altro dei motivi per cui il divario salariale è così evidente tra uomini e donne si può ritrovare nel fatto che, in media, le donne svolgono più ore di lavoro non retribuito, per esempio prendendosi cura dei figli o badando ai lavori domestici.
Tutto ciò implica una minore disponibilità di tempo per il lavoro retribuito, ma anche una maggiore propensione alle interruzioni della carriera per motivi che riguardano la cura dei figli e dei familiari e, soprattutto, comporta un maggior carico fisico e mentale per le donne rispetto agli uomini.
Come ha evidenziato un rapporto del 2020 dell’International Labour Organization (ILO), cioè un’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei diritti riguardanti il lavoro, in Italia, le donne svolgono 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno mentre gli uomini un’ora e 48 minuti. Le donne italiane, quindi, si fanno carico del 74 per cento del totale delle ore di lavoro non retribuito di assistenza.
Le differenze di genere registrate nella diversa gestione dei tempi di vita di uomini e donne hanno delle conseguenze sulle diverse opportunità di dedicarsi ad altri ambiti del vivere quotidiano come il lavoro retribuito e il tempo libero.
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Le molestie sessuali anche sul luogo di lavoro Battute umilianti, linguaggio rude, commenti sessisti o a sfondo sessuale, palpeggiamenti e contatti fisici non consensuali. I comportamenti definibili come molestia sessuale possono essere molto vari, ma sono sostanzialmente caratterizzati da un aspetto direttamente o indirettamente sessuale e dal fatto di non essere né desiderati né graditi da chi li subisce.
Secondo i dati dell’Istat pubblicati nel 2018 – cioè i dati disponibili più aggiornati – si stima che siano 8 milioni 816 mila, cioè il 43,6 per cento, le donne fra i 14 e i 65 anni che nel corso della vita hanno subito qualche forma di molestia sessuale. Per la prima volta l’Istat ha rilevato anche le molestie a sfondo sessuale ai danni degli uomini, stimando che 3 milioni 754 mila uomini le abbiano subite nel corso della loro vita, cioè il 18,8 per cento.
Ciò che è importante evidenziare è che, in entrambi i casi, gli autori delle molestie a sfondo sessuale risultano in larga prevalenza uomini: lo sono per il 97 per cento delle vittime donne e per l’85,4 per cento delle vittime uomini.
Per quanto riguarda le molestie ricevute sul luogo di lavoro lo stesso rapporto dell’Istat ha quantificato che al 2016 fossero 1 milione 404mila le donne che avevano subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro e 1 milione 173 mila donne ne sono state vittima nel corso della vita per essere assunte, per mantenere il posto di lavoro o per ottenere progressioni nella carriera. L’avvocata Baggioni ha spiegato a Facta che «a fronte di questo milione e 404mila donne molestate, in realtà quasi l’81 per cento non ne parla con nessuno». Questo silenzio, secondo Baggioni, non è causato dall’assenza di leggi che tutelino le donne, anzi, perché quella che riguarda le molestie è una legge avanzata e stratificata, che arriva da direttive europee avanzate in questo senso, ma nel nostro Paese queste norme devono essere applicate «in un tessuto culturale molto arretrato, con cui la legge entra in qualche modo in conflitto e quindi le difficoltà sono di altro tipo». Secondo l’avvocata è importante considerare che «bisogna fare un lavoro non solo di conoscenza delle norme, affinché le donne, e parlo di donne perché sono quelle che subiscono il maggior numero di molestie, si sentano libere di denunciare» ma anche, e soprattutto, non siano più sottoposte a questo tipo di violenza.
Il divario di genere nell’istruzione Un altro degli ambiti in cui è ancora presente una disparità tra maschi e femmine è quello dell’istruzione. Nonostante negli ultimi decenni ci sia stata un’inversione di rotta, oggi infatti le donne tendono ad essere più scolarizzate degli uomini, le maggiori competenze acquisite non si traducono in maggiori tassi di occupazione né in redditi più alti, mantenendo vivi gli squilibri di genere.
Le ragazze, infatti, sono ad esempio sottorappresentate nei percorsi di studi scientifici. Secondo un rapporto del 2022 di AlmaLaurea, consorzio interuniversitario pubblico che raccoglie ed elabora dati in ambito universitario, nei corsi universitari di primo livello le donne costituiscono una spiccata maggioranza nei gruppi educazione e formazione, linguistico, psicologico, medico sanitario e in quello di arte e design, mentre al contrario «sono una minoranza nei gruppi informatica e tecnologie ICT (13,7 per cento), ingegneria industriale e dell’informazione (26,6 per cento) e scienze motorie e sportive (33,0 per cento)» e una distribuzione simile si rileva anche all’interno dei percorsi magistrali biennali. Poiché si tratta di percorsi di studio che offrono in generale maggiori opportunità lavorative, se poche donne vi accedono, i divari di genere nel mondo del lavoro sono destinati a cristallizzarsi. Come ha dichiarato Paola Villa a Facta, viviamo in una società in cui «la donna deve ancora programmare i propri studi in modo che poi nel mercato del lavoro si inserisca con una professione adatta a una madre» come, ad esempio, l’insegnante.
Rilevazioni internazionali condotte dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) hanno rivelato che esiste una tendenza dei genitori ad avere maggiore fiducia nelle possibilità dei figli maschi di lavorare in ambito scientifico, alla base della quale vi è un pregiudizio diffuso che viene spesso interiorizzato non solo dalle famiglie, ma anche dalle stesse ragazze. In realtà uno studio del 2019 pubblicato dalla rivista scientifica Science of Learning ha dimostrato che non ci sono evidenti differenze nel modo in cui il cervello elabora i processi matematici tra i due generi.
Questa disparità, però, ha conseguenze dirette sulla fiducia delle bambine e delle ragazze nel riuscire in ambito scientifico. Infatti, come ha dimostrato una ricerca di Openpolis, in Italia tra i quindicenni con i migliori risultati in matematica e scienze, i ragazzi prevedono di lavorare in campo scientifico o come ingegneri nel 26 per cento dei casi, mentre per le femmine la percentuale si abbassa al 12,5 per cento.
Nonostante i tentativi di incoraggiare la diversità di genere nella scelta del percorso di studi e delle carriere, la strada verso la parità è ancora lunga.
Le disparità di genere in ambito medico Le disuguaglianze a cui sono esposte le donne nei diversi ambiti della loro vita non si limitano al lavoro e all’istruzione, ma sono presenti in quasi tutti i campi della loro vita. Nella sfera della salute, ad esempio, diversi studi e ricerche hanno dimostrato come esista quello che viene chiamato “gender pain gap”, cioè una serie di pregiudizi nei confronti dell’espressione del dolore da parte delle donne che influenzano negativamente la diagnosi e il trattamento delle loro condizioni di salute.
Quando il dolore fisico delle donne viene liquidato come esagerato e immaginario, o erroneamente diagnosticato come psicologico, la loro salute e la loro vita ne risentono. Ad esempio negli Stati Uniti le donne aspettano, in media, 16 minuti in più rispetto agli uomini per ricevere i farmaci dopo aver segnalato per la prima volta un dolore addominale e hanno il 7 per cento in meno di probabilità rispetto agli uomini di ricevere quel trattamento in primo luogo. Ma non solo, l’errata interpretazione del dolore femminile come collegato all’ansia contribuisce a far sì che le donne abbiano circa il 50 per cento in più di probabilità di ricevere una diagnosi errata dopo un attacco di cuore.
E l’Italia non è esente da questa disparità nell’ambito medico che mette a rischio la salute delle donne. Nel nostro Paese, ad esempio, sono affette da endometriosi, un’infiammazione cronica degli organi genitali femminili causata dalla presenza anomala di cellule endometriali, il 10-15 per cento delle donne in età riproduttiva. L’endometriosi è causa di riduzione della fertilità o infertilità e l’impatto della malattia è alto ed è connesso alla riduzione della qualità della vita, ma il ritardo diagnostico è valutato intorno ai sette anni.
Il dolore cronico di cui soffrono soprattutto le donne è infatti poco studiato e poco finanziato. Anke Samulowitz, autrice di una revisione sistematica di studi sul tema, ha spiegato a Valigia Blu che questa disparità può dipendere dall’impostazione androcentrica della medicina in quanto, per molto tempo, è stata praticata principalmente da uomini e le donne sono escluse dalle ricerche mediche. Come riportato dal “Piano per l’applicazione e la diffusione della Medicina di Genere” del ministero della Salute italiano, gli effetti di molti farmaci, ad esempio, «sono stati studiati prevalentemente su soggetti di sesso maschile e il dosaggio nella sperimentazione clinica definito su un uomo del peso di 70kg». Un discorso analogo «può valere per le prestazioni dei dispositivi medici e gli effetti del loro utilizzo».
In Italia si parla di medicina di genere, ma la disparità che ancora esiste in ambito sanitario vede l’uomo come standard e le donne e le persone trans come eccezioni, con conseguenze sulla loro salute come ritardo diagnostico e svalutazione del dolore. Il peso delle malattie che causano dolore è in aumento nelle donne di tutto il mondo, e per questo è fondamentale che le cause e le conseguenze delle disparità nelle risposte cliniche siano adeguatamente comprese, affrontate e mitigate.
Quando si parla di disparità di genere in Italia, ma anche nel mondo, è sicuramente fondamentale fare riferimento ai femminicidi e alle violenze fisiche che le donne subiscono costantemente, ma è altrettanto cruciale determinare il contesto in cui questi fatti avvengono.
I dati italiani descrivono un contesto in cui la disparità è presente in molti ambiti della vita quotidiana delle donne, dal lavoro all’istruzione, fino alla salute, e questo contribuisce a rafforzare una struttura sociale in cui gli uomini occupano posizioni di potere e privilegio che li mette, inevitabilmente, su un piano differente rispetto alle donne. Fino a sfociare, in alcuni casi, nell’atto più violento ed efferato: il femminicidio, appunto.
Un caso di omicidio avvenuto in Francia ha rianimato una narrazione di disinformazione che rivendica l’esistenza di un corrispettivo maschile del femminicidio