Nel pezzo si legge che un giovane di 21 anni di nome Matteo Salvini, «leghista dal 1990 ed ex frequentatore del Leoncavallo», durante il dibattito della sera precedente in consiglio comunale «sugli incidenti di sabato» aveva fatto un intervento lasciando i presenti «senza parole» e mettendo tutti d’accordo. La giornalista raccontava che Salvini aveva preso la parola per raccontare che «per anni» aveva frequentato il Leoncavallo e che molti suoi amici si riunivano ancora lì. Citando con virgolette parti di quell’intervento, Soglio riporta che il giovane leghista aveva spiegato che «nei centri sociali ci si trova per discutere, confrontarsi, bere una birra e divertirsi», assicurando che quelli che lui conosceva del Leoncavallo «non prenderebbero mai in mano un sasso o una spranga». Nel finale Salvini si era appellato ai suoi coetanei, chiedendo di rifiutare «la logica dello scontro armato».
L’articolo del Corriere della Sera informava poi che Salvini fuori dall’aula aveva detto che dai 16 ai 19 anni, mentre frequentava il liceo classico Manzoni, aveva frequentato il Leoncavallo: «Stavo bene, mi ritrovavo in quelle idee, in quei bisogni». Nel frattempo, si legge ancora, «Matteo» aveva incontrato la Lega: «Per un periodo ho continuato a frequentare i centri sociali. Poi ho avuto guai, ma non dai miei coetanei: a creare problemi sono sempre quelli lì, i trentacinque quarantenni che strumentalizzano i giovani e forse sono strumentalizzati loro stessi».
È proprio dall’intervento di Salvini del 1994 in consiglio comunale sugli scontri tra manifestanti pro Leoncavallo e forze dell’ordine e dal conseguente articolo del Corriere della Sera che inizia a diffondersi nei media il racconto sul futuro leader della Lega e la sua assidua frequentazione del centro sociale più famoso di Milano.
La ricostruzione dei fatti
Come abbiamo visto era stato lo stesso Salvini a dichiarare pubblicamente nel 1994 che per circa tre anni (dai 16 anni ai 19 anni) il Leoncavallo era stato il suo luogo di ritrovo con gli amici durante gli anni al liceo Manzoni.
Tuttavia, parallelamente alla diffusione mediatica di questo racconto, sono emerse testimonianze e verifiche che hanno mostrato l’infondatezza di questa presunta frequentazione citata da Salvini trent’anni fa, quando era ancora un giovane consigliere comunale di Milano.
Paradossalmente, il primo ad aver smentito questa leggenda è stato proprio Matteo Salvini. Nel suo libro “Secondo Matteo. Follia e coraggio nel cambiare il Paese” pubblicato nel 2016 da Rizzoli, il leader della Lega spiega la sua visione politica, ripercorrendo la sua intera vita. Salvini cita gli anni al Manzoni, quelli che sarebbero stati contraddistinti, secondo il Salvini del 1994, da pomeriggi e serate al Leoncavallo a confrontarsi sulla politica con gli amici e con una birra in mano. Nel libro il leader leghista non fa tuttavia mai menzione di questa frequentazione. Anzi, il Leoncavallo viene invece citato solo due volte nel libro (a pagina 62) per smentire proprio di averlo frequentato.
Salvini ricorda che il suo «primo intervento» del 1994 in consiglio «fece piuttosto scalpore» perché dopo la manifestazione del Leoncavallo e gli scontri con le forze dell’ordine «tra lo stupore generale, dissi più o meno: “I teppisti vanno presi e puniti, ma non tutti quelli che vanno al Leoncavallo sono dei disgraziati”». Quella dichiarazione, continua il libro, fece guadagnare al giovane leghista un’intervista scritta da Elisabetta Soglio, la giornalista che seguiva le vicende di Palazzo Marino per il Corriere della Sera. Salvini ricorda che dopo la pubblicazione di quell’articolo «i detrattori iniziarono a darmi impunemente del comunista». Ed è a questo punto che il leader leghista afferma di aver messo piede nello storico centro sociale milanese «solo una volta in vita mia. Per un concerto. Quando la politica ancora non mi interessava». La stessa smentita sul suo rapporto politico con il Leoncavallo, Salvini la fornisce nel 2019 durante un’intervista a diversi giornalisti: «Sono stato una sola volta! Ho bevuto una sola birra e me ne sono andato».
Si potrebbe pensare che il leader della Lega abbia smentito quanto dichiarato da lui stesso nel 1994 per convenienza politica. Perché un passato da frequentatore assiduo di un noto centro sociale di sinistra avrebbe potuto essere una contraddizione troppo pesante per la sua carriera politica da importante esponente di destra in Italia.
Un libro inchiesta di Claudio Gatti del 2019 sulla Lega e l’estremismo di destra intitolato “I demoni di Salvini. I postnazisti e la Lega. La più clamorosa infiltrazione politica della storia italiana” conferma tuttavia che quella della frequentazione assidua di Salvini del Leoncavallo è una leggenda (nata appunto 30 anni fa) priva di qualsiasi riscontro. Diversi compagni di classe e professori del Manzoni (la scuola superiore frequentata dal leader leghista), intervistati dal giornalista, hanno infatti dichiarato di non aver alcun ricordo di una frequentazione di Salvini del Leoncavallo, né di un ambiente simile. Anzi, in base alle verifiche e ricostruzioni di Gatti, all’epoca del liceo i suoi più stretti compagni di classe erano un ragazzo dichiaratamente fascista e un altro, definito da due insegnanti, «di destra».
Anche in base alle informazioni pubbliche diffuse da quotidiani e presenti su libri che raccontano la vita privata e politica del leader leghista non risultano indizi o prove di questi anni giovanili in un ambiente “di sinistra” come il Leoncavallo. Salvini si iscrive alla Lega Nord guidata allora da Umberto Bossi nel 1990, quando ha 17 anni, affascinato dai temi dell’identità e dell’autonomia e dal carisma del senatur. Nel 1993, a 20 anni, diventa uno dei consiglieri leghisti che sostengono la giunta del sindaco della Lega Formentini. Nella sua prima intervista, pubblicata in quell’anno dal Corriere della Sera all’esordio in consiglio comunale, non menziona mai questo presunto “passato” al centro sociale milanese. Salvini dichiara invece di sognare una città «più sicura, con meno disoccupati», ma soprattutto «più gradevole»: «Vedo le immagini degli inizi del secolo e mi chiedo perché Milano non possa tornare ad essere bella come un tempo». Sempre nel 1993, tra ottobre e dicembre, la giunta di Formentini, sostenuta da Salvini in consiglio comunale, aveva approvato una delibera per far demolire lo stabile dell’allora sede del Leoncavallo perché ritenuto pericolante e un’altra per avviare uno sgombero della struttura. La campagna elettorale di Formentini per diventare sindaco aveva promesso d’altronde di risolvere la “questione Leoncavallo” senza esitazioni. Lo stesso Umberto Bossi aveva ricordato sempre in quei mesi: «Quel covo di delinquenti va spazzato via, le promesse elettorali bisogna mantenerle…».
Il (non) “comunista padano”
Come abbiamo visto, la frequentazione giovanile priva di prove di Salvini del Leoncavallo è spesso citata negli articoli insieme alla sigla “comunista padano” come prova di un passato a sinistra del leader leghista. Salvini, ricordano questi pezzi, si era infatti presentato nel 1997 al cosiddetto “Parlamento della Padania” come capolista dei “Comunisti Padani” che aveva nel simbolo la falce e il martello.
Il 26 ottobre 1997 nel Nord Italia e in diversi territori delle regioni centrali le persone si recarono a votare simbolicamente in seggi-gazebo per le elezioni del “Parlamento della Padania”. Si trattava di un organo fondato da Umberto Bossi che avrebbe dovuto scrivere la Costituzione del nuovo Stato che la Lega Nord diceva di voler creare, anche se in concreto non nacque, ricostruisce Gabriele Maestri nel suo libro “Padani alle urne”. Furono presentate 46 liste, con 1.146 candidati. Al termine delle votazioni i “Comunisti Padani” ottennero 5 seggi su 210. Capolista della lista, come detto, fu Salvini.
Ma tuttavia l’idea di candidarsi in quella lista specifica non era nata da Salvini. Come raccontato infatti al giornalista Claudio Gatti da Angelo Alessandri, presidente federale della Lega Nord dal 2005 al 2012, alla fine del 1996 a Bossi venne l’idea «di fare le elezioni padane e mi chiese di costruire un paio di liste. Di inventarmele». L’ex dirigente leghista spiega così che «nel Parlamento padano dovevamo avere rappresentato tutto lo spettro istituzionale. Quindi io mi inventai tre o quattro liste da aggiungere a quelle che già c’erano. Ce n’era una di Vito Gnutti, che era liberale; quella dei socialdemocratici di Formentini; una dei libertari. Io me ne inventai un’altra un po’ più spinta sulla Padania e quella dei comunisti padani. Venendo dall’Emilia era anche quasi scontato. Mi pareva carina questa cosa, con la falce e il martello. Anche per vedere chi andava a votare dei comunisti». Al momento di selezionare i candidati, continua Alessandri, «scegliemmo come portavoce questo giovane ragazzo di cui a Milano parlavano tutti bene» perché «girava voce che venisse dal Leoncavallo» (siamo nel 1997, quindi tre anni dopo l’articolo del Corriere in cui lo stesso Salvini aveva dichiarato di frequentare il centro sociale). Contattato, Salvini accettò e in questo modo la lista “Comunisti padani” fu costruita.
Come visto, quindi, Salvini non si era unito a quella lista per adesione ideologica, ma perché chiamato a partecipare dal partito a un’operazione preparata a tavolino. Lo stesso Salvini nel suo libro del 2016 scrive: «Certo, gli indizi per etichettarmi come “comunista” c’erano tutti, ma la realtà era – ed è – profondamente diversa. […] Non sono mai stato un compagno, e la mia storia lo dimostra».