
Meta ha chiuso un gruppo con 32 mila utenti che condividevano foto intime di donne
La decisione è arrivata a seguito di una call to action nata su Instagram
Il 20 agosto Meta ha rimosso il gruppo Facebook “Mia moglie”, dopo che lunedì scorso la scrittrice Carolina Capria, in arte “lha scritto una femmina”, aveva lanciato su Instagram una call to action per spingere i suoi follower a segnalare il gruppo, attivo da gennaio 2019.
In questo gruppo pubblico, che contava circa 32mila iscritti prima della sua cancellazione, gli utenti (quasi tutti uomini) postavano foto di donne, presentate come mogli o fidanzate, e chiedevano agli altri iscritti di commentarle. La maggior parte dei post erano stati pubblicati dagli utenti con il proprio nome e cognome registrato su Facebook, ma a volte i suoi membri sfruttavano l’anonimato, una funzione disponibile per i gruppi solo se gli amministratori lo consentono.
Un portavoce di Meta ha fatto sapere a Facta che il gruppo è stato rimosso «per violazione delle nostre policy contro lo sfruttamento sessuale di adulti». Meta, infatti, ha proseguito il portavoce, non consente la condivisione di «contenuti che minacciano o promuovono violenza sessuale, abusi sessuali o sfruttamento sessuale sulle nostre piattaforme». Sempre secondo il portavoce, quando Meta viene a conoscenza di contenuti che incitano o sostengono lo stupro, può «disabilitare i gruppi e gli account che li pubblicano e condividere queste informazioni con le forze dell’ordine».
Il gruppo in questione è rimasto attivo per oltre sei anni e mezzo.
Un gruppo per condividere senza consenso immagini intime di donne
Il modus operandi del gruppo “Mia moglie” era ben preciso. Scorrendo la bacheca – che Facta ha potuto esaminare prima della sua chiusura – si trovavano centinaia e centinaia di foto di donne, spesso scattate di nascosto, di ogni genere: selfie allo specchio, sedute al ristorante, al mare in costume da bagno o in situazioni più intime. Il loro viso, a volte, veniva tagliato o coperto con sticker o riquadri colorati, così da renderle irriconoscibili. Non mancavano poi scatti presi da Internet di modelle spacciate per le proprie mogli.
Ad accompagnare le foto, quasi tutte, c’era la richiesta esplicita indirizzata alla community di commentare “la propria donna”, fornendo un giudizio estetico e raccontando cosa avrebbero fatto alla donna se ce l’avessero avuta davanti. È così che il corpo delle donne viene oggettivato, deumanizzato e ridotto a un mero oggetto per soddisfare i desideri sessuali degli uomini. «L’intento principale», scrive su Instagram l’autrice e filosofa Silvia Grasso, «è quello di condividere fotografie delle proprie mogli/compagne contro la loro volontà e di metterle in vetrina, in vendita, come se fossero carne da macello».
«Mia moglie vuole un parere sul costume, che ne pensate, può andare? Dal vivo però è tutta un’altra storia… Se fate i bravi e si arriva a 1000 likes avrete un’altra foto..», ha chiesto un utente in anonimo, postando la foto di una donna, presumibilmente sua moglie, in costume da bagno.
«Prima volta che pubblico. Primo piccolo dettaglio della mia amata moglie (47 anni). Che ne pensate? Scatenatevi, lei adora. Foto integrali a 200 commenti», provoca un altro membro del gruppo.
I commenti subdoli e volgari non tardavano ad arrivare. Sotto la foto di una donna in costume da bagno che prende il sole a pancia in giù, si leggevano frasi del genere: «Io una mezza idea l’avrei di cosa fare», «una cavallona», «bellissima vista panoramica», «che voglia di passargli la crema».
Scorrendo la bacheca di questo gruppo nasce spontaneo un dubbio: molte delle donne ritratte probabilmente non erano affatto consapevoli che il loro corpo fosse stato fotografato e condiviso online senza consenso, né tantomeno utilizzato a fini sessuali. In alcuni casi, tra l’altro, gli uomini arrivavano a chiedere esplicitamente ad altri membri di inviare foto delle proprie mogli anche contro la loro volontà. Come spesso accade in comunità di questo tipo, infatti, il materiale ottenuto senza il consenso della partner viene percepito come di maggior valore e può essere scambiato (anche in privato) con contenuti ottenuti nello stesso modo.

In Italia, una pratica del genere potrebbe costituire una serie di reati.
Alcune delle immagini visionate dalle redazione di Facta potrebbero infatti ricadere nella fattispecie punita dall’articolo 612 ter del codice penale italiano, quello che sanziona il cosiddetto “revenge porn” e che punisce la diffusione di immagini a contenuto sessualmente esplicito senza il consenso delle persone rappresentate. Al contrario di quanto lascia intendere l’utilizzo del termine “revenge porn” (impreciso tanto dal punto di vista giuridico quanto da quello descrittivo) il movente della vendetta non è necessario ai fini del reato.
Per l’avvocato e docente di informatica giuridica Francesco Paolo Micozzi, è necessario invece che i contenuti condivisi fossero di natura privata e tale definizione escluderebbe quelli realizzati all’insaputa delle vittime. In questa circostanza, stando a Micozzi, potrebbe comunque configurarsi la violazione dell’articolo 615-bis del codice penale, che sanziona chi si procura immagini sulla vita privata di una persona con l’ausilio di «strumenti di ripresa visiva o sonora». In questo caso sarebbe comunque necessario che gli scatti o le riprese siano avvenuti in un luogo non pubblico.
Le segnalazioni di massa
Dopo la prima segnalazione lanciata pubblicamente su Instagram da Carolina Capria, su Instagram è iniziato un passaparola in cui diverse persone – comprese giornaliste, filosofe e scrittrici con un bacino di follower ampio – a loro volta hanno chiesto pubblicamente di segnalare il gruppo a Meta, ma anche e soprattutto alla Polizia Postale.
Tra chi ha segnalato il gruppo c’è anche chi lo ha poi fatto sapere ai diretti interessati, scrivendo un messaggio sulla bacheca di Facebook e spiegando che la condivisione di immagini intime private senza consenso è un reato. Non tutti hanno recepito la notizia con la dovuta serietà.

Da quando l’esistenza di questo gruppo è diventata di dominio pubblico, il numero degli utenti è calato di centinaia di membri (la redazione di Facta ha notato un calo da circa 32.500 a 31.500 nella sola giornata del 19 agosto), anche se la cifra esatta oscillava col passare delle ore.
Un caso tutt’altro che isolato
Il gruppo Facebook “Mia moglie” non è né il primo né l’unico caso di uomini che si riuniscono online per scambiarsi foto di partner scattate e condivise senza consenso.
Nel 2020 la Polizia postale aveva identificato e denunciato gli amministratori di alcuni canali Telegram – “La Bibbia 5.0”, “Il Vangelo del Pelo” e “Stupro tua sorella 2.0” – dove venivano postati foto e video sessualmente espliciti all’insaputa delle vittime. Il canale “Stupro tua sorella 2.0” contava almeno 45 mila iscritti e permetteva un flusso di oltre 30mila messaggi al giorno. L’amministratore di “La Bibbia 5.0” aveva guadagnato 5mila euro attraverso la vendita delle immagini pornografiche: era un diciassettenne.
Nel 2023, l’associazione Permesso Negato che monitora i casi di Non Consensual pornography (“Pornografia non consensuale”, NCP) ha identificato 147 canali e gruppi Telegram in Italia con quasi 17 milioni di iscritti totali (numero calcolato tendendo conto che molti utenti potrebbero essere iscritti a più di un gruppo) in cui vengono scambiati contenuti intimi e pedopornografici.
Telegram è l’app prediletta per questo genere di scambi, perché permette di condividere qualsiasi tipo di contenuto con migliaia di utenti grazie a gruppi e canali; e soprattutto, è possibile mantenere l’anonimato perché per entrarci non è necessario condividere alcuna informazione personale, nemmeno il numero di cellulare.
Contenuti intimi vengono però facilmente condivisi in Rete anche senza Telegram. Vale la pena ricordare che l’ormai famigerata “Bibbia” – un file con decine di migliaia di cartelle, contenenti nomi e foto private di altrettante vittime – è stato aggiornato negli anni attraverso i gruppi chiusi su Facebook. La redazione di Facta ha rintracciato diversi gruppi attualmente attivi sulla piattaforma di Meta, ognuno dei quali frequentato da diverse migliaia di utenti. Alcuni di questi gruppi, che non menzioneremo per non accrescerne la portata, contengono già nel nome espliciti riferimenti allo stupro delle donne coinvolte.
Ma la violenza sessuale online non è una prerogativa delle piattaforme. Il sito web Coco.fr (chiuso nel 2024), ad esempio, ha ospitato per anni la chatroom denominata in francese “A son insu” (“A loro insaputa”) creata da Dominique Pelicot per organizzare gli stupri della moglie Gisèle. Secondo la procuratrice di Parigi Laure Beccuau, complessivamente il sito, dal 2003 – anno della sua creazione – al 2023, è stato implicato in 23.051 casi penali che hanno coinvolto 480 vittime. In Italia esistono forum contenenti delle sezioni interamente dedicate alla condivisione di immagini scattate all’insaputa delle partner o ottenute attraverso il sexting.
Segnalare alle autorità predisposte l’esistenza di queste piattaforme che ospitano immagini condivise senza consenso è sicuramente necessario. Ma ancora più importante è la prevenzione di un fenomeno che, come ricorda l’associazione Permesso Negato, ha delle ripercussioni estremamente impattanti sulla vita delle vittime: isolamento e stigma sociale, senso di vergogna, ma anche danni psicologici come depressione, disturbo post traumatico, atti autolesivi e azioni suicidarie.
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