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La fabbrica della nostalgia: come si costruisce il mito delle dittature sui social

In Italia e in Spagna circolano contenuti virali che mirano a magnificare le politiche dei regimi fascisti di Mussolini e Franco

9 ottobre 2025
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La versione inglese di questo articolo è disponibile a questo link.

Da decenni miti e false narrazioni sul fascismo e sul franchismo vengono ripetute nel dibattito pubblico italiano e in quello spagnolo, puntando a riscrivere la storia dei due regimi e dei rispettivi dittatori. Con l’arrivo dei social media queste vere e proprie forme di revisionismo hanno trovato forme diverse e immensi spazi alternativi per circolare e arrivare anche alle nuove generazioni. Smascherare queste menzogne propagandistiche è diventato dunque un compito di fondamentale importanza, oltre che un esercizio di rispetto della verità storica.  

Per diffondere queste narrazioni, i contenuti si basano su una serie di elementi: disinformazione, appelli alle esperienze degli anziani, uso ricorrente di paragoni diretti con il presente, introduzione di dati numerici privi di contesto per dare una parvenza di credibilità, e utilizzo di meme che condensano il messaggio. Anche quando assume un tono ironico o umoristico, questo filone narrativo può avere un impatto reale: inquadrando le dittature come epoche di ordine, prosperità e sicurezza, alimenta la nostalgia per i regimi autoritari e mette in dubbio la democrazia odierna.

Questo articolo è il secondo di un’indagine internazionale condotta da Maldita.es (Spagna) e Facta (Italia). Il progetto esplora brevemente come la propaganda fascista e la disinformazione si siano adattate al linguaggio dei social media e le strategie che utilizzano per eludere le restrizioni delle piattaforme e garantire che i contenuti raggiungano un pubblico più giovane e più ampio.

Questa indagine è stata resa possibile grazie al sostegno del Journalismfund Europe.

Mussolini e Franco hanno fatto “anche cose buone”?

Negli ultimi anni, la redazione di Facta e i colleghi di Maldita.es hanno assistito a una parallela impennata di contenuti che mirano a riscrivere la storia e che attribuiscono a Mussolini e a Franco il merito di aver creato sistemi di previdenza sociale, ferie retribuite e riposo domenicale. In altre parole, esiste una precisa narrazione che collega le dittature ai sistemi di welfare, un filone talvolta utile a magnificare gli avanzamenti sociali dei regimi nazifascisti, altre volte a descriverli come figli dell’ideologia socialista

Secondo Matilde Eiroa, professoressa ordinaria dell’Università Carlos III, queste narrazioni e la loro diffusione sulle piattaforme social servono soprattutto come veicolo «di propaganda per attirare i giovani» e per «diffondere la propria ideologia e lodare le figure di questi tre dittatori: sono icone riconoscibili che permettono di connettersi molto bene con quel pubblico e reclutare nuovi seguaci».

Come ha osservato lo storico spagnolo Carlos Barciela nel libro Con Franco vivíamos mejor, questo era anche uno dei pilastri del regime franchista stesso. Franco veniva sistematicamente reinventato dalla propaganda come incarnazione di ogni possibile virtù: «un soldato distinto, il più giovane generale d’Europa, l’uomo che sconfisse il comunismo, salvò la Spagna dalla Seconda guerra mondiale e persino il candidato più degno alla santità». Era paragonato a figure come Cesare, il Cid, Carlo V o persino Abraham Lincoln, e descritto dagli ammiratori come “l’unico grande uomo del XX secolo”. Nelle parole di Barciela, «queste presunte virtù non erano altro che il frutto della propaganda franchista, un’enorme macchina di manipolazione e menzogna che lavorava a pieno regime durante la dittatura».

Narrazioni simili circolano anche in Italia. Con l’arrivo del periodo natalizio, sui social compaiono vari post secondo cui chi critica o disprezza Mussolini e il fascismo dovrebbe rifiutare (o almeno devolvere in beneficenza) la propria tredicesima, poiché sarebbe stata una concessione del Duce durante il Ventennio fascista.

Queste affermazioni, che si ripetono ogni anno, si basano però su una premessa del tutto falsa. La tredicesima, infatti, così come la conosciamo adesso, non è stata una concessione del fascismo, ma è il risultato di battaglie sindacali, proprio quelle che Mussolini aveva reso illegali mentre era al potere. 

In origine la tredicesima mensilità era una gratifica natalizia che alcuni datori di lavoro, soprattutto nelle grandi aziende, davano di propria iniziativa ai dipendenti. Il 5 agosto 1937, durante il regime fascista, fu ratificato il “Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro” (CCNL) per l’industria. All’articolo 13 del testo era presente l’obbligo di erogare la tredicesima. Questa però era molto diversa da quella che si conosce oggi. La “tredicesima” del fascismo riguardava esclusivamente il settore industriale e i soli lavoratori assunti con la qualifica di impiegato. Gli operai, ad esempio, ne erano completamente tagliati fuori. Si trattava dunque di una misura settoriale e ristretta, che accoglieva una pratica già parzialmente in uso nelle grandi aziende italiane. Lo stesso contratto collettivo, tra l’altro, peggiorava notevolmente le condizioni dei lavoratori dell’industria: ad esempio con l’articolo 8 del CCNL veniva aumentato l’orario di lavoro da dieci a dodici ore. 

La tredicesima, intesa non più come una “gratifica” prevista per pochi, ma come diritto per tutti, venne invece estesa in due momenti successivi la caduta del fascismo nel 1943. Prima ai lavoratori dell’industria con il “concordato interconfederale” firmato a Roma il 27 ottobre 1946 e, successivamente, a tutti i lavoratori dipendenti di ogni settore con il decreto del presidente della Repubblica n.1070 del 28 luglio 1960. È dunque questa la data di nascita ufficiale dell’odierna tredicesima.

Un’altra narrazione che periodicamente si diffonde sui social è quella secondo cui Mussolini avrebbe “creato le pensioni”. Una tesi portata avanti nel corso degli anni anche da importanti esponenti politici italiani. Nel 2016 Matteo Salvini, leader della Lega Nord e attuale vice presidente del Consiglio e ministro dei Trasporti del governo italiano, nel corso di un’intervista radio disse che in Italia «la previdenza sociale l’ha portata Mussolini, non l’hanno portata i marziani». In realtà, come si legge sullo stesso sito dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) italiano, la previdenza sociale muove «i primi passi» nel 1898 «con la fondazione della Cassa Nazionale di previdenza per l’invalidità e per la vecchiaia degli operai (L. 350 del 1898)». Si trattava, continua l’INPS, «di un’assicurazione volontaria integrata da un contributo di incoraggiamento e dal contributo anch’esso libero degli imprenditori. A ciascun iscritto era intestato un conto individuale su cui accreditare i contributi versati, le quote di concorso (ossia l’integrazione della Cassa) e i relativi interessi». 

Nel 1919, poi, tre anni prima dell’inizio del regime fascista, l’assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia diventò obbligatoria per i lavoratori dipendenti privati e venne introdotto l’istituto della pensione di invalidità e vecchiaia, con requisiti minimi di 65 anni di età e di 12 anni lavorativi. Nello stesso anno venne anche introdotta l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione volontaria. «È il primo passo verso un sistema che intende proteggere il lavoratore da tutti gli eventi che possono intaccare il reddito individuale e familiare, la cui gestione è affidata alla Cassa Nazionale delle Assicurazioni Sociali (CNAS), così ridenominata», ricostruisce sempre l’INPS.

Durante il fascismo, nel 1933, vennero ampliate le tutele e la platea degli assicurati e la Cassa venne rinominata “Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale” (INFPS), diventando un ente di diritto pubblico dotato di personalità giuridica e gestione autonoma che riuniva le diverse casse previdenziali sotto un’unica gestione. Nel 1943 all’ente venne tolta la parola “fascista” dal nome, diventando definitivamente “Istituto Nazionale della Previdenza Sociale” (INPS).

La mitizzazione del Mussolini statista

Tra i falsi miti fascisti che dipingono Mussolini come un “uomo buono” c’è la storia della bonifica delle paludi. Quello del prosciugamento delle zone paludose resta tuttora nell’opinione pubblica italiana «come una delle conquiste più indiscutibili del regime», scrive su Le Monde Jerome Gautheret, giornalista ed ex corrispondente del quotidiano francese dall’Italia. I reali risultati ottenuti dal regime in questo ambito «ci spronano però a temperare questa constatazione, fino a chiederci se quello che osserviamo quasi un secolo dopo non sia soprattutto il frutto di una magistrale operazione di propaganda», continua il giornalista. 

Guardando i numeri, infatti, se il progetto iniziale era quello di migliorare 8 milioni di ettari di terreno su tutto il territorio nazionale, nel concreto la porzione di territorio bonificato fu molto inferiore. Come si legge nel saggio La natura del duce. Una storia ambientale del fascismo, degli storici Marco Armiero e Roberta Biasillo, «sebbene il regime dichiarasse la vittoria nella guerra sull’acqua con la bonifica di quattro milioni di ettari (la metà di quanto preventivato), di questi due milioni erano ancora in corso d’opera e un milione e mezzo era in realtà stato bonificato dai governi liberali prima del 1922». Una stima storicamente più accurata dell’estensione dei terreni bonificati dal regime fascista si aggira invece sui 600mila ettari, come riporta Il Post.

Un’altra narrazione virale punta a dipingere Mussolini come un grande statista che avrebbe previsto con decenni di anticipo quello che sarebbe successo nel futuro. Ad esempio una delle “previsioni” più virali attribuite al dittatore fascista è la seguente: «Attenzione al pericolo giallo. Nei prossimi decenni ci dovremo guardare dall’espansionismo cinese. Invaderanno il mondo con la loro smisurata prolificità, con i loro prodotti a basso costo e con le epidemie che coltivano al loro interno». Secondo quanto riportato nei post condivisi sui social, questa presunta citazione sarebbe stata pronunciata dal duce nel 1927 durante un discorso di saluto al gerarca fascista Galeazzo Ciano, in occasione della sua nomina a «rappresentante italiano a Shanghai», in Cina.

È una storia totalmente infondata e falsa. Nel 1927 Galeazzo Ciano non fu nominato ambasciatore a Shanghai. In quello stesso anno il politico fu invece inviato a Pechino come segretario di legazione, il grado più basso della carriera diplomatica, alle dipendenze del ministro d’Italia Daniele Varè. Non esiste poi alcuna traccia di un discorso di saluto pronunciato da Mussolini per l’occasione. Non era consuetudine organizzare manifestazioni pubbliche per la partenza di un semplice segretario di legazione. Galeazzo Ciano è stato invece nominato ambasciatore a Shanghai nel maggio del 1930, pochi giorni dopo il suo matrimonio con Edda Mussolini, la figlia del duce. I discorsi pubblici pronunciati da Benito Mussolini nel 1930 sono contenuti nel volume “Discorsi del 1930 di Benito Mussolini” pubblicato l’anno successivo e consultabile online. In esso non compare un discorso di saluto a Galeazzo Ciano. 

L’unico riferimento alla Cina di Benito Mussolini datato 1927 è invece contenuto in un passaggio del celebre «discorso dell’Ascensione», occasione in cui Mussolini teorizzò l’ostacolo posto dalle opposizioni al «funzionamento di un sano regime politico» e informò la Camera sui progressi nella lotta alla mafia. Il testo completo è disponibile nell’archivio storico della Camera, e in un passaggio riferito alla Cina si legge: «Sotto la diretta sorveglianza degli organi della sanità pubblica, si sono derattizzati novemila bastimenti, cioè si sono uccisi quei roditori che portano dall’Oriente malattie contagiose: quell’Oriente donde ci vengono molte cose gentili, febbre gialla e bolscevismo…». Nel testo in questione Benito Mussolini non aveva quindi previsto «l’espansionismo cinese» né le epidemie provenienti dalla Cina, come invece gli viene attribuito online.

“Con Franco si viveva meglio” e altre menzogne

In Spagna, la frase «Con Franco si viveva meglio» è diventata un modo per riassumere un insieme di sotto-narrazioni ricorrenti che si ripetono in decine di canali Telegram e in clip virali su TikTok o YouTube: «vivere era più sicuro, «il prezzo delle case era conveniente,», «le opere pubbliche erano efficienti» e «le tasse erano più giuste».

Il canale YouTube spagnolo RescueYou, con 247 mila iscritti, è uno di quelli che promuove queste affermazioni. Lo fa principalmente attraverso brevi video in cui vengono intervistate persone anziane e viene chiesto loro esplicitamente se la vita fosse migliore sotto Franco. «Ho vissuto sotto Franco. Vivevo in un appartamento al piano terra, i miei genitori non chiudevano mai la porta. Mia madre aveva una tenda, che tirava la sera, e dormivamo tranquilli. Ora no. Penso che questo dica tutto, senza menzionare che avevo un lavoro con Franco, andavo alle partite di calcio, tornavo dalle partite e non avevo problemi. Non avevo problemi con Franco», dice una persona intervistata.

Screenshot dalle interviste sul canale YouTube RescueYou, dove agli anziani viene chiesto se la vita fosse migliore sotto Franco. Fonte: YouTube.

La professoressa di Storia all’Università Carlos III di Madrid, Matilde Eiroa, afferma nel suo libro Franco, from hero to comic figure of contemporary culture che «alla fine degli anni ’70 e all’inizio degli anni ’80, la frase nostalgica “Si viveva meglio sotto Franco” divenne piuttosto diffusa, alludendo al disincanto nei confronti della democrazia e all’idea che sotto Franco ci fosse pace, non ci fosse criminalità e ci fossero prospettive di lavoro». Eiroa ha spiegato a Maldita.es che con «un linguaggio semplicistico, facile da comprendere per tutti, presentano la dittatura in modo distorto, evidenziando i suoi presunti successi economici o risultati in termini di ordine sociale, mentre nascondono come tali successi siano stati raggiunti o come sia stato instaurato quell’ordine sociale, che si basava sulla persecuzione politica, sulla mancanza di libertà, sulla violenza, e sul favoritismo verso i ricchi, i grandi imprenditori e i proprietari terrieri a scapito dei lavoratori».

In altri casi, si cerca di legittimare la narrazione attraverso testimonianze di persone straniere, come accaduto durante la manifestazione contro il Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE) dopo la pubblicazione del rapporto dell’Unità operativa centrale della Guardia Civil, la polizia spagnola, vicino alla sede del partito in Calle Ferraz, a Madrid, nel giugno 2025. Lo youtuber David Santos ha intervistato una giovane donna, sottolineandone la nazionalità ecuadoriana. Dopo una serie di domande, la ragazza finisce per esclamare «Viva Franco!». Il video è intitolato «Donna ecuadoriana ieri a Ferraz: “Viva Franco e viva la Spagna”».

Per Kye Allen, dottore di ricerca in Relazioni Internazionali e ricercatore all’Università di Oxford, questi contenuti fanno parte della «normalizzazione di ciò che è accaduto sotto queste dittature fasciste e regimi autoritari e di una sorta di banalizzazione dei crimini, ma mostrano anche uno sguardo al passato con una prospettiva ottimistica e una certa nostalgia per questi regimi». In breve, «una glorificazione del passato».

Quando la disinformazione strumentalizza l’attualità

Questa narrazione prende forza anche da eventi come il blackout in Spagna del 28 aprile 2025 o il passaggio di DANA (acronimo spagnolo per “depressione isolata in alta quota”) su Valencia nell’ottobre 2024. Chi promuove questa narrazione approfitta di tragedie e fatti di attualità per dire che «sotto Franco questo non sarebbe accaduto» o che «grazie a ciò che fece Franco, le conseguenze non sono poi così gravi». Ad esempio, nel caso di DANA sono riemerse narrazioni che facevano riferimento alla distruzione dei bacini costruiti da Franco. «Dopo l’alluvione del ’57, Franco ordinò la costruzione di un nuovo letto del fiume, insieme a una serie di bacini e dighe per contenere l’acqua di questi fenomeni. Questo governo ha demolito quattro di questi bacini, e questo è il risultato», recitava uno dei post più virali in quel periodo. In effetti, dopo l’alluvione del 1957 fu ordinata la deviazione del corso del fiume Turia e la costruzione del bacino di Loriguilla, che è ancora operativo. Ma non è vero che sono stati demoliti dei bacini: le uniche strutture demolite sono sette piccole dighe e sbarramenti obsoleti che non erano stati costruiti per immagazzinare acqua.

La frase «si viveva meglio sotto Franco» compare spesso accanto a foto di quegli anni che mostrano famiglie, di solito numerose. Un esempio: nell’agosto 2025, l’intelligenza artificiale Grok di X ha identificato per errore una foto di una famiglia di Malaga scattata durante il regime di Franco (1952) come se fosse dell’Alabama, negli Stati Uniti, durante la Grande Depressione. Foto di questo tipo si possono vedere su piattaforme social come Instagram o X con la frase «Si viveva meglio sotto Franco».

Post su Instagram e X che utilizzano la frase “Vivevamo meglio sotto Franco” insieme a vecchie foto di famiglia.

«Un’altra politica sociale in cui il regime di Franco fu più attivo in termini di propaganda fu quella della casa», osserva lo storico Carlos Barciela nel libro Con Franco vivíamos mejor. Franco presentava l’abitazione come un diritto sociale, ma in pratica la cosiddetta «battaglia per la casa» fu più uno slogan che una realtà. Come scrive Barciela, «l’inefficienza nella ricostruzione e un ampio margine per la speculazione furono due caratteristiche fondamentali dell’azione dei governi franchisti nel campo dell’edilizia e della pianificazione urbana». La creazione di un ministero della Casa e del primo Piano nazionale per l’edilizia (1956–1960) «non avevano soddisfatto le aspettative propagandistiche che accompagnarono la loro nascita. La loro azione fu molto limitata, la costruzione di alloggi sociali fu, al massimo, solo palliativa, e favorì principalmente le imprese private nel settore edilizio e i gruppi a reddito medio». Anche negli anni ’60, «la costruzione di case popolari e protette rimase molto debole. Il boom edilizio fu opera di costruttori privati e banche».

Eppure oggi, messaggi come «Sotto Franco, un lavoratore medio poteva permettersi di comprare un appartamento a Santa Pola in quattro anni» o «Con l’approvazione della Legge sulla Memoria Democratica, che rende illegale dire “VIVA FRANCO”, sapete se i proprietari dei più di 4 milioni di alloggi sociali costruiti saranno considerati occupanti abusivi e sfrattati?» circolano ampiamente sui social media, proiettando un’immagine di prosperità che cancella il contesto più ampio.

La disinformazione viene usata come veicolo per diffondere questa e altre narrazioni, utilizzando frasi semplificate, manifesti o foto. Un esempio visivo molto utilizzato è il confronto tra due immagini, una dei giorni nostri e una dell’epoca di Franco, per promuovere narrazioni, ad esempio, contro l’immigrazione.

I giovani e i regimi autoritari

La scorsa primavera, la società di ricerche di mercato e analisi dei dati YouGov ha condotto, per conto della fondazione tedesca Tui Stiftung, un sondaggio sulla fiducia dei giovani europei nella democrazia, raccogliendo quasi 7 mila risposte da persone tra i 16 e i 26 anni (ossia gli appartenenti alla Generazione Z) in diversi Paesi europei. Il 56 per cento degli intervistati italiani si è dichiarato favorevole a un sostegno incondizionato alla democrazia. Questa percentuale colloca l’Italia circa a metà classifica, guidata dalla Germania (71 per cento) e seguita dalla Polonia (48 per cento).

Per quanto riguarda la soddisfazione nei confronti del sistema democratico, solo il 17 per cento dei giovani italiani si è detto soddisfatto, mentre il 43 per cento si è dichiarato insoddisfatto e il restante 41 per cento circa si è detto indeciso. In questo contesto, il 24 per cento dei giovani ha affermato che sosterrebbe un governo autoritario «a determinate condizioni», una percentuale simile a quella riscontrata in altri Paesi come Francia, Spagna e Polonia.

In Spagna, i sondaggi del CIS (Centro de Investigaciones Sociológicas) degli ultimi anni mostrano che, sebbene la maggioranza dei cittadini (il 79 per cento nel 2025) consideri ancora la democrazia la migliore forma di governo, il sostegno ai regimi autoritari è aumentato. Nel 2007 solo il 5,8 per cento degli spagnoli riteneva che, in certe circostanze, un regime autoritario potesse essere preferibile a uno democratico. Oggi quella percentuale è salita all’8,6 per cento (e supera il 18 per cento se si includono coloro che si dichiarano indifferenti alla questione).

Ciò che colpisce è che questo aumento si concentra tra i più giovani, soprattutto a partire dal 2018. Nella fascia d’età 18-24 anni, la simpatia per l’autoritarismo è passata dal 5,9 per cento del 2018 al 17,3 per cento nel 2025, e nella fascia 25-34 anni dal 4,9 per cento al 17,4 per cento. In altre parole, coloro che hanno meno di 35 anni – e che quindi sono nati dopo la dittatura di Franco – sono oggi i più aperti ad alternative non democratiche, secondo i sondaggi del CIS.

Questa tendenza è confermata anche da un’indagine pubblicata nel settembre 2025 da 40dB per El País, secondo cui un uomo su quattro appartenente alla Generazione Z (il 25,9 per cento dei giovani tra i 18 e i 26 anni) ritiene che «in alcune circostanze» l’autoritarismo possa essere preferibile al sistema democratico, rispetto al 18,3 per cento delle donne della stessa età. Il divario di genere si amplia tra i millennial (27-42 anni), dove il 22,9 per cento degli uomini accetterebbe un regime autoritario contro il 12,7 per cento delle donne.

Infine, un altro indicatore in linea con le rilevazioni precedenti emerge dallo studio del CIS su Ideologia e Polarizzazione dell’ottobre 2024: oltre un quarto dei cittadini spagnoli (27 per cento) è d’accordo con l’affermazione «non mi dispiacerebbe vivere in un Paese meno democratico se questo mi garantisse una migliore qualità della vita». Tra i giovani di età compresa tra 18 e 24 anni, la percentuale sale al 38 per cento.

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