
Abbiamo sempre temuto le nuove forme di comunicazione – e non dovremmo smettere ora
Alexios Mantzarlis è il direttore della Security, Trust, and Safety Initiative (SETS) presso l’università Cornell Tech di New York. Questo articolo è stato pubblicato originariamente in inglese nella newsletter Faked Up, curata da Mantzarlis e ripubblicata da Facta con il permesso dell’autore. Lettrici e lettori di Facta possono abbonarsi alla versione inglese con uno sconto del 20 per cento cliccando a questo link.
In primavera, i fiori selvatici ricoprono le colline della California meridionale con colori così vividi da poter essere talvolta visti dallo spazio. Proprio come accade con i ciliegi in fiore di Roosevelt Island, a New York, un evento stagionale bellissimo ma di routine porta alcune persone a perdere la testa. Nel 2019, decine di migliaia di visitatori hanno intasato le strade cittadine di Lake Elsinore, in California, per vedere – e farsi immortalare in fotografie con – la “super fioritura”. Hanno calpestato papaveri, sradicato fiori e lasciato i residenti a lamentarsi di quello che è stato definito il “flowergeddon”.
Nel suo recente libro Superbloom, Nicholas Carr utilizza questo esempio di frenesia indotta dai social media come metafora del nostro attuale ecosistema informativo. «Oggi viviamo in una super fioritura perpetua – non di fiori, ma di messaggi».
La metafora non mi ha colpito particolarmente, ma questo non è un motivo per non leggere il libro. Carr colloca la nostra attuale crisi informativa in 150 anni di teoria della comunicazione e progresso tecnologico. Non è ottimista: sostiene che una comunicazione sempre più efficiente abbia «ampliato il divario tra gli pseudo-ambienti in cui le persone pensano e i veri ambienti in cui agiscono».

La radio non ha reso impossibile la guerra
Il progresso della tecnologia della comunicazione è sempre stato accompagnato da ondate di ottimismo e pessimismo (molti esempi di quest’ultimo sono raccolti meravigliosamente nell’Archivio dei Pessimisti).
Charles Cooley, sociologo americano del XIX secolo, temeva che l’accesso universale ai libri avesse portato a un maggiore individualismo, poiché i lettori si distaccavano da ciò che li circondava per creare legami con soggetti immaginari o lontani.
La Conferenza Telegrafica Internazionale del 1865 fu celebrata come un “vero Congresso di Pace”, e un editoriale del New York Times del 1899 sosteneva i telegrammi a basso costo perché «nulla favorisce e promuove la comprensione reciproca e una comunità di sentimenti e interessi quanto una comunicazione economica, rapida e conveniente». Il tono cambiò con lo scoppio della Prima guerra mondiale, quando si accusò il telegrafo di aver travolto l’“arte comunicativa” della diplomazia con “troppa comunicazione.”

Analoghi alti e bassi seguirono l’avvento di radio e televisione.
Guglielmo Marconi predisse che la radio senza fili «renderà la guerra impossibile, perché renderà la guerra ridicola». Era il 1912. Gli appelli a evitare una legislazione rigida sulla radio che «avrebbe ostacolato lo sviluppo di una grande impresa moderna» somigliano agli editoriali odierni che invocano un approccio laissez-faire all’intelligenza artificiale generativa. Il vento cambiò dopo il naufragio del Titanic, quando le operazioni di soccorso furono ostacolate dagli utenti radioamatori che diffondevano disinformazione. I regimi totalitari divennero esperti nell’uso dei mass media come arma, contaminando così la radio e la televisione.

Siamo stati “Zuckati”
Poi sono arrivati i media digitali.
Nel 2006, Yochai Benkler colse lo spirito del tempo sostenendo che «Internet democratizza» abbattendo i mass media e introducendo una sfera pubblica in rete. Nel 2012, Mark Zuckerberg affermava nel documento di quotazione in borsa di Facebook di ispirarsi alla stampa e alla televisione, che «semplicemente rendendo la comunicazione più efficiente […] portarono a una trasformazione completa di molte parti importanti della società».
Il web e i social media hanno certamente trasformato parti della società – anche se non sempre in meglio. Carr conclude che la rappresentazione di Benkler del web come spazio di filtraggio cooperativo e informazione civica partecipata era «soppesata, logica e sbagliata».
Possiamo come minimo affermare che più informazione non ha portato a un pubblico più informato. L’esplosione della quantità di dati disponibili e la velocità con cui circolano travolgono la nostra capacità di pensiero riflessivo – chiamato Sistema 2. Ecco di nuovo Carr:
«L’efficienza mediatica, spinta all’estremo, accelera così tanto il flusso informativo che le persone non hanno più il lusso di una lettura attenta, di una valutazione metodica e di una riflessione contemplativa. Le brezze dell’influenza si combinano in un vortice. L’attenzione si frammenta, la comprensione si assottiglia. Invece di abbattere le barriere alla conoscenza e all’empatia, è la comunicazione stessa a diventare una barriera».
Forse abbiamo ottenuto un mercato delle idee più democratico. Ma quelle idee erano Pizzagate e QAnon.
Sovraccarico informativo e creazione di miti
I chatbot IA completano la conquista dell’ecosistema informativo da parte dei media elettronici. Prima, le macchine hanno sostituito gli esseri umani nel semplice trasporto delle informazioni – con telegrafo, radio, televisione, email. Poi, i social media e gli algoritmi di ricerca hanno assunto il compito di ordinare e filtrare i contenuti. Oggi, la produzione di contenuti stessa ha smesso di essere un’attività necessariamente umana.
Le conseguenze di quest’ultima fase saranno tema di libri ancora da scrivere. Ma non è difficile guardare al passato, come ha fatto Carr, per fare un’ipotesi fondata su ciò che ci attende.
Alcune figure chiave dello sviluppo delle telecomunicazioni elettroniche credevano anche nella telepatia; l’era del telegrafo coincise con l’emergere dello Spiritismo, un movimento religioso che crede nella comunicazione con i defunti. È difficile non vedere echi di quell’epoca nell’antropomorfizzazione dell’intelligenza artificiale generativa e nell’ossessione per i chatbot che “resuscitano” persone morte.
Anche se non finiremo a venerare ChatGPT – ipotesi che non mi sento di escludere del tutto – il sovraccarico informativo peggiorerà. Influencer virtuali che pubblicano contenuti generati dall’IA 24 ore su 24 mineranno ulteriormente la nostra capacità di comprendere il mondo.
Il filosofo canadese Marshall McLuhan affermava che «quando l’uomo è sopraffatto dall’informazione, si rifugia nel mito. Il mito è inclusivo, fa risparmiare tempo, ed è rapido». Carr aggiunge in Superbloom che «un mito fornisce un contesto preconfezionato per interpretare rapidamente le nuove informazioni che ci circondano in modo caotico».
Unito al fatto che «le opinioni emergono dall’affiliazione, non il contrario», ciò apre la strada ai leader populisti per diventare “totem dell’identità di gruppo” e a scorciatoie per interpretare il sovraccarico informativo.
Se esiste una soluzione, è rallentare. Carr sostiene – come altri pensatori che stimo – un «design frizionale» che inserisca «sabbia virtuale negli ingranaggi virtuali». Tuttavia, ammette anche che questo difficilmente accadrà:
«La storia del progresso tecnologico mostra che, una volta che le persone si abituano a una maggiore efficienza in una qualsiasi attività o processo, le riduzioni di efficienza – per quanto motivate – risultano intollerabili».
Invertire il progresso tecnologico è inutile, ma ciò non significa che non possiamo cercare di orientarlo verso una direzione migliore.
Mike Caulfield, esperto di alfabetizzazione digitale che nessuno può accusare di ingenuo utopismo tecnologico, sta lavorando a prompt specializzati che trasformano Claude e ChatGPT in fact-checker personali. Ciò che trovo più utile nel risultato di questi prompt non sono tanto le risposte specifiche, quanto il processo strutturato per vagliare le informazioni disponibili.
In un mondo ideale, useremmo gli stessi strumenti che stanno accelerando la produzione di informazioni a un ritmo insostenibile per rallentare il nostro modo di assimilarle. Invece di riassunti semplicistici, poveri di fonti e pieni di allucinazioni, potremmo ottenere sistemi di recupero basati su LLM che forniscono una rigorosa contestualizzazione.
Non è ciò che le Big Tech ci stanno offrendo, ma dovrebbe essere ciò che pretendiamo.
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