
La teoria del complotto del suprematismo bianco sudafricano che sta orientando le politiche migratorie di Trump
La destra radicale americana e Elon Musk rilanciano il mito del “genocidio bianco” per giustificare una politica d’asilo selettiva e su base razziale
Nel 1991, l’anno in cui il regime di apartheid in Sudafrica fu abolito, trecento afrikaner – i discendenti dei coloni olandesi, i boeri – fondarono in una regione arida nel cuore del Paese una comunità di soli bianchi basata sul principio di separazione razziale: Orania. A un trentennio di distanza, gli abitanti sono cresciuti fino a tremila e, fra il marzo e l’aprile di quest’anno, una loro delegazione è volata in Europa e negli Stati Uniti per promuoverne la causa indipendentista, uno Stato afrikaner sul modello etnico di Israele. Nel suo tour nell’emisfero settentrionale, Joost Strydom, il responsabile della comunicazione di Orania, ha incontrato i nazionalisti fiamminghi in Belgio, gli esponenti dell’estrema destra nei Paesi Bassi, i rappresentanti della giunta sudtirolese in Italia e influencer, think-tank e membri del partito repubblicano negli Stati Uniti.
Se Strydom otteneva facile accesso ai luoghi del potere americani, Ebrahim Rasool, ambasciatore sudafricano di lunga data negli Stati Uniti, si vedeva sbattere porte in faccia quando chiedeva incontri istituzionali con la nuova amministrazione. A pesare sulla sua emarginazione era soprattutto la posizione del suo governo nei confronti di Israele, che il Sudafrica ha formalmente accusato di genocidio alla Corte internazionale di giustizia. D’altronde, già sotto l’amministrazione Biden, la Casa Bianca aveva mostrato irritazione per l’allineamento geopolitico del Sudafrica, considerato troppo sbilanciato verso Cina e Russia. Ora, ha detto al Washington Post Sarang Shidore, direttore di un think tank sul Sud globale, Trump ha caricato di una «lente razziale» la relazione tra i due Paesi.
A metà marzo, il segretario di Stato statunitense Marco Rubio ha infatti dichiarato Rasool “persona non grata” e lo ha espulso dagli Stati Uniti. «Ebrahim Rasool è un politico che istiga al razzismo e che odia l’America e Trump», ha annunciato su X Rubio commentando il provvedimento, dopo che l’ambasciatore, nel corso di un seminario accademico, aveva tacciato di “suprematismo” e “vittimismo bianco” il movimento Make America Great Again.
Per scongiurare la crisi, il presidente del Sud Africa Cyril Ramaphosa ha nominato un nuovo inviato a Washington, ma il tentativo è apparso tardivo e velleitario. A nemmeno tre settimane dall’inizio del suo secondo mandato, Trump aveva firmato un ordine esecutivo in cui denunciava il governo sudafricano per discriminazione razziale nei confronti dei bianchi afrikaner e si offriva di concedere loro lo status di rifugiati. In Sudafrica «confiscano le loro terre e fattorie, e fanno anche molto di peggio», aveva poi commentato sul suo social Truth, promettendo che «qualsiasi agricoltore (con famiglia!), in fuga per motivi di sicurezza dal Sudafrica, sarà accolto negli Stati Uniti con un rapido percorso verso la cittadinanza».
Le conseguenze non si sono fatte attendere: gli aiuti al Sudafrica sono stati sospesi, inclusi i fondi per la lotta all’HIV, e gli accordi commerciali sono a rischio di revisione.
Il “genocidio bianco”: la nascita di una teoria del complotto
Gli Stati Uniti hanno una lunga storia di strumentalizzazione politica del diritto di asilo – dall’accoglienza dei rifugiati ungheresi nel 1956, fino agli esuli cubani anticastristi nel 1961 e infine ai profughi vietnamiti nel 1975 – eppure è la prima volta che lo strumento umanitario viene applicato con un criterio razziale.
In effetti, il Sudafrica è un bersaglio di Trump fin dal suo primo mandato. Nel 2018, il presidente aveva assistito, su Fox News, a diverse puntate del programma di Tucker Carlson in cui il governo di Pretoria era tratteggiato come un crudele persecutore degli agricoltori afrikaner, responsabile della confisca illegale delle terre dei bianchi e, addirittura, di uccisioni di massa a sfondo razziale. Trump aveva quindi ordinato al ministero degli esteri di avviare un’indagine su quella che, di fatto, è una teoria del complotto: il “genocidio bianco”.
La teoria, diffusasi a partire dagli anni Settanta negli ambienti neonazisti americani, ha tuttavia trovato terreno fertile in Sudafrica fra i nostalgici dell’apartheid, convinti che la minoranza bianca sia ora vittima di una pulizia etnica da parte della maggioranza nera. Fra i principali megafoni della narrazione ci sono i Suidlanders, un movimento millenarista e suprematista afrikaner che si prepara a un’imminente guerra razziale, e AfriForum, un gruppo di pressione che, ufficialmente, difende i diritti civili afrikaner ed evita di menzionare l’espressione “genocidio bianco”, ma che, all’atto pratico, perpetua il mito delle fattorie prese d’assalto e legittima retrospettivamente il regime segregazionista.
Dalla prima amministrazione Trump, entrambe le organizzazioni hanno costruito una rete di lobbying con figure dell’Alt-Right e della “complosfera” americana, come Stefan Molyneux, Mike Cernovich e Alex Jones, e con elementi di spicco del partito repubblicano, tra cui John Bolton e Ted Cruz. Ernst Roets di AfriForum, in particolare, è diventato un interlocutore privilegiato del mondo MAGA, ritagliandosi interviste su Fox News e inviti alle conferenze CPAC.
Ma come si spiega l’interesse della destra americana per gli afrikaner? Da tempo, l’ex colonia britannica della Rhodesia – ora Zimbabwe – e il Sudafrica post-apartheid sono stati elevati ad ammonimenti viventi per l’Occidente, squarci da un futuro distopico in cui una minoranza bianca perde potere politico in una nazione e retrocede nelle gerarchie sociali, fino alla possibile estinzione demografica. Se, fino a pochi anni fa, l’ossessione per il destino dei bianchi africani era confinata al terrorismo suprematista – sia Anders Breivik, autore delle stragi di Oslo, sia Dylann Roof, l’attentatore di Charleston, citavano il Sudafrica nei loro manifesti –, ora sono anche le destre istituzionali a sollevare la questione, tracciando un parallelismo con il paventato scenario di una progressiva “sostituzione etnica” in Europa e negli Stati Uniti a causa dell’immigrazione.
Per le destre il caso sudafricano è particolarmente terrorizzante perché, a una riforma agraria timidamente progressiva, che consente l’esproprio delle terre in casi molto limitati, si accompagna uno dei tassi di omicidio più alti al mondo, che, secondo la teoria del genocidio bianco, graverebbe in modo selettivo sugli agricoltori bianchi. Tuttavia, nonostante i bianchi siano potenzialmente i più colpiti dalla riforma – finora mai applicata –, essi detengono una quota sproporzionata dei terreni agricoli del Paese (oltre il 70 per cento), pur rappresentando solo il 7 per cento della popolazione. Anche le uccisioni nelle zone rurali, benché reali, sono numericamente gonfiate dalla propaganda afrikaner e hanno in prevalenza moventi economici e criminali, non razziali.
Nel febbraio 2025 ci ha pensato pure una sentenza della magistratura sudafricana a confutare la teoria del genocidio bianco, definendola «chiaramente immaginaria».
Il ruolo di Musk nella promozione della teoria
L’amministrazione Trump sembra, ad ogni modo, avviata sulla strada dell’escalation. Alla fine di marzo, Trump ha nominato ambasciatore in Sudafrica Leo Brent Bozell III, un attivista della destra religiosa che, alla fine degli Ottanta, aveva criticato l’apertura del presidente Reagan a colloqui con l’African National Congress di Nelson Mandela, da lui equiparata a un’organizzazione terroristica.
Nel frattempo, l’ambasciata statunitense a Pretoria ha cominciato a raccogliere i nominativi di afrikaner interessati a ottenere lo status di rifugiati negli Stati Uniti: sarebbero oltre 67.000 le persone ad aver fatto domanda e i primi 54 afrikaner sono atterrati a Washington il 12 maggio, accolti – una vera anomalia – da dignitari americani. La pratica è stata piuttosto accelerata, in quanto in genere occorrono fino a due anni per ottenere il diritto a entrare nel Paese.
Finora le principali organizzazioni afrikaner hanno declinato l’invito di Trump. Eppure, una parte significativa dell’élite economica bianca sudafricana si è già trapiantata, con un certo successo, negli Stati Uniti. Ad esempio, Peter Thiel, fondatore di PayPal, David Sacks, consulente di Trump nel campo delle criptovalute, e, soprattutto, l’uomo più ricco del mondo, Elon Musk.
Complici anche i suoi interessi privati in Sudafrica, dove Starlink – come tutte le compagnie straniere – non è autorizzato a operare a meno di cedere almeno il 30 per cento delle quote a partner neri locali, Musk è diventato una delle voci più influenti nella promozione della teoria del complotto del “genocidio bianco”. «Sono pochissime le persone a sapere che in Sudafrica esiste un importante partito politico che promuove attivamente il genocidio dei bianchi», ha scritto sul suo social X lo scorso marzo.
È difficile stabilire quanta influenza abbia avuto il contesto culturale sudafricano sulle opinioni di Musk, che, negli ultimi anni, ha mostrato grandi affinità ideologiche con i partiti della destra radicale, come Alternative für Deutschland (AfD), e con narrazioni suprematiste come la sostituzione etnica, fino addirittura a performare un saluto hitleriano lo scorso gennaio. Secondo Phillip Van Niekerk, ex direttore del principale quotidiano anti-apartheid di Johannesburg, per qualsiasi bianco sudafricano cresciuto durante l’apartheid – non solo gli afrikaner, ma anche gli anglofoni come Musk – gli anni formativi sono stati decisivi nel plasmare una visione del mondo inconsapevolmente razzista. «Tutti noi, per la natura stessa dei nostri privilegi e del nostro posto nella gerarchia razziale, siamo cresciuti credendo di essere la razza padrona, anche se non ci pensavamo attivamente», ha detto al Guardian. A incentivare il suprematismo erano sia la scuola sia il partito nazionalista afrikaner al governo, i cui vertici erano stati simpatizzanti della Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale. Persino Steve Bannon, ex stratega di Trump, che vive con livore la competizione con Musk, ha definito i sudafricani bianchi «le persone più razziste del mondo» e ha invitato Musk, Thiel e Sacks a tornare nel loro Paese d’origine.
Un altro possibile antecedente della radicalizzazione di Musk si rintraccia nella sua storia familiare. Il nonno materno, il chiropratico canadese Joshua Haldeman, si era convinto che esistesse una secolare cospirazione internazionale di banchieri ebrei dopo aver perso la fattoria durante la Grande Depressione. Fra gli anni Trenta e Quaranta aveva aderito a due movimenti politici: dapprima Technocracy Inc., che caldeggiava l’abolizione della rappresentanza politica in favore di un governo tecnocratico degli scienziati e che fu sciolto per attività sovversive, e in seguito i populisti del partito del credito sociale, che proprio in quel periodo affrontavano una controversia per la ripubblicazione dei Protocolli dei Savi di Sion, il testo antisemita per eccellenza. Haldeman, intanto asceso fino al grado di segretario regionale del partito, ne difese la divulgazione.
Nel 1950 il nonno di Musk lasciò il Canada e si trasferì in Sudafrica, attirato da una profezia secondo cui il Paese sarebbe diventato il bastione della civiltà bianca nel mondo e dalle politiche anticomuniste e segregazioniste del nuovo governo afrikaner. In Africa si dedicò a due delle sue grandi passioni, l’aviazione e l’esplorazione del deserto, alla ricerca di una leggendaria città perduta. Morì in un incidente aereo nel 1974, quando il nipote aveva poco più di due anni.
Anche il padre di Elon, Errol Musk, con cui il multimiliardario ha avuto un rapporto molto travagliato, presenta un profilo ambiguo. Membro del partito federale progressista, unica opposizione parlamentare bianca al governo nazionalista, lasciò la politica perché favorevole a una riforma graduale dell’apartheid, con camere separate per bianchi e neri. In un’intervista ha poi ricordato l’apartheid come un’epoca in cui «tutto funzionava» e in cui «neri e bianchi andavano molto d’accordo».
Musk è partito per gli Stati Uniti nel 1989, poco prima del crollo del regime. Al di là di quanto l’infanzia e l’adolescenza a Pretoria abbiano inciso sulle sue idee, il Sudafrica post-apartheid ha assunto, per lui e per l’amministrazione Trump, la funzione di uno specchio distorto attraverso cui rileggere e manipolare le paure demografiche dell’America bianca, proprio mentre le politiche migratorie ultra-restrittive della Casa Bianca sigillano i confini anche a miglaia di legittimi richiedenti asilo. Secondo fonti governative, le risorse del fondo per i rifugiati saranno infatti dirottate all’assistenza e al reinsediamento degli esuli afrikaner.
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