
La tradizione culinaria italiana è una bugia di successo
I rischi di autoconvincersi che la cucina italiana sia nata nei confini nazionali, quando la sua storia è strettamente legata a migrazioni e scambi internazionali
Il 10 dicembre 2025 il comitato Unesco per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale si è riunito a Nuova Delhi, in India, e ha decretato che la cucina italiana è patrimonio culturale immateriale dell’umanità. In Italia, la notizia è subito rimbalzata dai principali media nazionali ai meme sui social, mentre la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha pubblicato un videomessaggio dicendo che questo obiettivo onora «quello che siamo e la nostra identità». Il ministero dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida ha sottolineato che «la Cucina italiana parla delle nostre radici, della nostra creatività e della nostra capacità di trasformare la tradizione in valore universale».
La decisione dell’Unesco è il punto di arrivo di una candidatura presentata a marzo 2023 dal governo attualmente in carica, con l’idea di promuovere «la cucina italiana tra sostenibilità e diversità bioculturale». Nel dossier, la cucina viene intesa in primo luogo come pratica del cucinare; la narrazione preponderante a livello mediatico, però, si focalizza sulle ricette considerate cardine della nostra cucina, come pizza, lasagne e spaghetti al pomodoro. I piatti italiani sono famosi e rinomati in tutto il mondo, tanto da diventare anche un tassello imprescindibile dell’identità nazionale. Abbiamo tutti, sotto sotto, la convinzione che una tradizione culinaria come la nostra non esista in nessun’altra parte del mondo. Del resto, anche Meloni ha sottolineato nel videomessaggio che la «nostra cucina custodisce un patrimonio millenario che si tramanda di generazione in generazione».
Ma è vero che l’odierna cucina italiana è il risultato di antiche tradizioni che affondano le radici nella storia, come dicono i ministri?
I miti che avvolgono la nostra “tradizione”
Prendiamo un grande classico: gli spaghetti al ragù. Ognuno di noi si affida alla ricetta di famiglia, immaginando i nostri antenati gustarla seduti a tavola, magari con un buon bicchiere di vino.
Peccato che questa ricetta, oggi considerata un semplice piatto disponibile in tutte le regioni del Paese, è relativamente recente. Consideriamo l’ingrediente primario: la pasta. Alcuni raccontano che la pasta sia arrivata in Italia dalla Cina grazie alle esplorazioni di Marco Polo: si dice persino che a bordo vi fosse un marinaio di nome “Spaghetti” che, durante una ricognizione lungo le coste della Cina settentrionale in cerca di rifornimenti d’acqua, si imbatté in un popolo intento a impastare e a tirare lunghe, sottili strisce di pasta. La storia è tanto divertente quanto falsa: come spiega un articolo della rivista enogastronomica Gambero Rosso, si tratta di una leggenda pubblicata per la prima volta nel 1929 da The New Macaroni Journal, il magazine dell’industria della pasta statunitense. In realtà, come racconta un documentario dell’emittente franco-tedesca Arte, la pasta era già presente in Sicilia almeno un secolo prima di Marco Polo, dove era arrivata con gli arabi durante il loro dominio sull’isola; il suo utilizzo rimase poi confinato ai grandi centri del Sud Italia (come Napoli) fino alla grande emigrazione italiana verso le Americhe a fine Ottocento. Fino a quel momento, infatti, la pasta secca era praticamente sconosciuta nel resto della penisola.
Il ragù, a sua volta, non è frutto di una tradizione millenaria. Fino al secondo dopoguerra, ha raccontato a Facta lo storico Andrea Grandi, autore del libro “La cucina italiana non esiste”, la maggior parte delle persone che abitavano la penisola italiana non avrebbero mai avuto i soldi per un piatto del genere. La carne non era un bene largamente consumato, in un’alimentazione povera e rurale che si basava principalmente sulle verdure. Solo per gli emigrati Italiani negli Stati Uniti, dove esistevano grandi allevamenti intensivi, la carne diventò un bene di consumo accessibile. Per non parlare del pomodoro, importato dal Sud America solamente nel Cinquecento dopo l’inizio della colonizzazione spagnola, e generalmente consumato fresco: il successo della passata di pomodoro, racconta il documentario di Arte, nasce tra gli italoamericani che usufruirono della conservazione industriale del prodotto negli Stati Uniti, e non in Italia.
Scoperta la vera storia degli spaghetti al ragù, passiamo ora a un altro piatto tipico: la pizza. Si narra che l’antenata della pizza fosse già mangiata nella penisola italica duemila anni fa, e la prova sarebbe contenuta in un passaggio dell’Eneide di Virgilio, dove si parla di un disco di pasta che viene cotto e condito. Ma, ricorda Grandi, quest’idea di prendere un disco di pasta e condirlo non è solamente italiana: anzi, si tratta di una pratica presente in moltissime altre culture del Mediterraneo. Anche se alcuni direbbero che però “nessuno la cucina come noi”, bisogna sapere che in realtà anche il modo di cucinare la pizza ritenuto “tradizionalmente italiano” è un aspetto piuttosto recente. In un’intervista al podcast Ma perché? del giornalista Marco Maisano, Grandi racconta che Carlo Collodi, autore di Pinocchio vissuto nell’Ottocento, era stato in visita a Napoli e aveva descritto la pizza come una “schiaccia sudicia” venduta per strada. Niente pomodoro, niente mozzarella, e niente a che vedere, insomma, con le moderne pizze e le esperienze gourmet.
Il concetto stesso di pizzeria, inoltre, non sembra nemmeno essersi originato in Italia: infatti, i dati al momento disponibili raccontano che la prima pizzeria per come la intendiamo oggi è stata aperta a New York nel 1911. È negli Stati Uniti, infatti, che nasce la ristorazione italiana come fattore di business, e che si consolida l’identità nazionale italiana a livello culinario. Persone che non sarebbero mai entrate in contatto l’una con l’altra nel Paese natio, infatti, negli Stati Uniti iniziano a scambiare tra di loro modi di vivere e cucinare.
Secondo Grandi, la cucina italiana è legata intrinsecamente al fenomeno delle migrazioni: gli Italiani che emigravano per povertà e fame, infatti, raggiunsero Paesi dove riuscirono ad acquisire per la prima volta un benessere che non avevano in patria, e che permise loro di scoprire nuovi piatti. È il caso anche del Sud America: in Argentina, ad esempio, un piatto tuttora molto conosciuto sono i Sorrentinos, un tipo di raviolo farcito presumibilmente inventato da una famiglia di immigrati italiani.
L’idea di “tradizione millenaria” non sembra quindi trovare riscontri; e si potrebbe andare avanti con numerosi altri esempi, come raccontato dalla serie podcast Denominazione Origine Inventata, di Alberto Grandi e Daniele Soffiati. La prima ricetta della carbonara è stata pubblicata a Chicago nel 1952, il panettone è nato come prodotto industriale e non artigianale, e il tiramisù risale a dopo il 1948, quando sono stati commercializzati i Pavesini. «Gran parte di ciò che riteniamo tradizione», quindi, «è frutto di una costruzione culturale nata in un momento molto preciso della nostra storia», ha sottolineato Grandi nel podcast Ma perché?.
Come la cucina è diventata la nostra identità
L’attaccamento italiano alle presunte tradizioni e alle ricette “fatte come si deve”, però, è estremamente reale, tanto da essere diventato proverbiale. Basta varcare i confini italiani e una delle prime domande che ci si può sentir rivolgere facendo conoscenza con nuove persone è cosa pensiamo dell’ananas sulla pizza o del cappuccino dopo mezzogiorno. Sui social, negli ultimi anni sono anche spopolate pagine Instagram come @lionfieldmusic, dove ragazzi italiani prendono in giro in inglese il modo di cucinare all’estero i piatti italiani.
Secondo l’autrice palestinese Reem Kassis, il cui lavoro si concentra sull’intersezione tra cibo, storia e politica, l’attaccamento al cibo nazionale è un tipico atteggiamento delle comunità di migranti all’estero. «Per gli immigrati con legami fragili con la patria», scriveva in un articolo sul The Atlantic del 2022, «il cibo nazionale può essere un surrogato particolarmente significativo dell’identità nazionale».
Kassis ci tiene anche a sottolineare che l’idea stessa di “cucina nazionale” è relativamente recente, ed è emersa solo con la nascita degli stati-nazione, tra il 18esimo e 19esimo secolo: la cucina, dice Kassis, è in realtà “regionale”, non nazionale. In questo senso sembrano essersi mossi anche i quotidiani in lingua tedesca dell’Alto Adige, che hanno reagito all’annuncio Unesco sottolineando che i canederli non fanno parte della cucina italiana (nonostante il dossier nemmeno li nomini, come non nomina nessuna ricetta specifica). La reazione altoatesina ha posto l’accento su uno degli aspetti spesso dimenticati, soprattutto all’estero, di quel grande calderone definito come cucina italiana: dalle più alle meno famose, le ricette italiane sono innanzitutto regionali, e di spirito “nazionale” hanno ben poco. Michele Antonio Fino, professore all’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo e autore di “Gastronazionalismo”, ha evidenziato a Facta che non avrebbe senso pensare di avere una cucina nazionale in un territorio che è stato storicamente più diviso che unito.
Quindi, nonostante ci piaccia pensare altrimenti, l’idea di una cucina “nazionale” e “tradizionale” non parla delle nostre radici, ma piuttosto della storia recente d’Italia e delle migrazioni che l’hanno caratterizzata. Del resto, anche nel dossier presentato all’Unesco dal governo Meloni, si parla dell’arte del cucinare, ma non si fa riferimento ai “piatti italiani”, né viene menzionata alcuna ricetta specifica. L’Unesco stesso non tutela elementi tangibili, ma pratiche culturali.
Come scrive Massimo Montanari, uno degli autori del dossier, nel libro “Il mito delle origini”, «ricercare le origini della nostra identità (ciò che siamo) non ci porta quasi mai a ritrovare noi stessi (ciò che eravamo) bensì altre culture, altri popoli, altre tradizioni, dal cui incontro e dalla cui mescolanza si è prodotto ciò che siamo diventati». Questa mescolanza non è tipica solamente della penisola italiana, ma si rispecchia nelle cucine di molte altre parti del mondo, frutto appunto dell’incontro di più popoli tra di loro. Ciò che mangiamo oggi, quindi, è frutto di spostamenti, commerci e migrazioni avvenuti nel corso della storia, e non somiglia per nulla a ciò che mangiavano quelli che riteniamo i “nostri” antenati. Del resto, come ricorda Kassis sul The Atlantic, «Giulio Cesare non ha mai mangiato la pasta al pomodoro, Giovanna d’Arco non ha mai provato la cioccolata calda e Buddha non ha mai assaggiato un curry super piccante».
I rischi del nazionalismo culinario
La sovrapposizione tra gastronomia e identità nazionale, per Alberto Grandi, inizia a crearsi negli anni ‘60 e ‘70. In quel periodo, il boom economico nella penisola porta alla diffusione di piatti che fino a poco prima solo in pochi si sarebbero potuti permettere, e così la cucina italiana diventa un business “locale” da promuovere, soprattutto per via del turismo. Negli anni, però, gli interessi che hanno spinto a creare la narrazione della cucina italiana come tradizione immutabile e l’Italia come la patria di una tradizione culinaria millenaria sono stati anche politici.
Che i governi si servano della cucina per fortificare un sentimento nazionalista non è una novità. Il testo che spesso viene considerato la bibbia della cucina italiana, ossia “L’arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi, è stato infatti scritto nel 1891, durante il periodo risorgimentale, all’alba della creazione dello stato-nazione italiano. Più avanti, in epoca fascista, venne redatto il “Manifesto della cucina futurista”, che osteggiava il consumo della pasta, disprezzata dal regime fascista in quanto cibo estraneo rispetto all’ostentato “ruralismo” ideologico di minestre e minestroni.
Oggi, il purismo culinario italiano viene utilizzato in politica per definire confini tra i diversi gruppi etnici che abitano l’Italia. Nel 2019, l’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi aveva suggerito di aggiungere al menù della festa di San Petronio il “tortellino dell’accoglienza” senza carne di maiale, come gesto di inclusione verso i cittadini musulmani. Questa proposta aveva scatenato le ire del leader della Lega Matteo Salvini, che aveva affermato: «Stanno cercando di cancellare la nostra storia, la nostra cultura». In realtà, come aveva già fatto notare all’epoca Alberto Grandi, fino alla fine del 19esimo secolo il ripieno dei tortellini non conteneva carne di maiale, ma di pollo, versione confermata anche dal presidente del consorzio dei tortellini di Bologna.
Il partito di estrema destra Lega si era già fatto notare per battaglie ideologiche del genere. Ad esempio, uno degli slogan più diffusi è stato “Sì alla polenta, no al cous cous” per politicizzare i due alimenti (uno tipico del Nord Italia, l’altro diffuso tanto in Nord Africa quanto in Sicilia) e portare avanti campagne anti-immigrazione. Nel 2019, Salvini aveva affermato di avere un’avversione nei confronti della Nutella in quanto fatta con nocciole turche; e nel 2025 in Friuli-Venezia Giulia il capogruppo della Lega in consiglio regionale ha proposto di tutelare i centri storici contro il proliferare delle «attività etniche» come i kebabbari, affermando con una battuta: «A me piace pane e salame».
Da tempo quindi il cibo è stato utilizzato per propagandare una precisa identità nazionale, e anche a livello governativo non mancano rivendicazioni di questo tipo. Nel 2024, il ministro Lollobrigida, di Fratelli d’Italia, aveva annunciato l’intenzione di modificare l’Articolo 32 della Costituzione sulla salute inserendo la tutela della «sovranità alimentare» e dei «prodotti simbolo dell’identità nazionale». Secondo Michele Fino, questo tipo di atteggiamento cade sotto l’ombrello del “gastronazionalismo”, un termine usato per descrivere la convinzione che la propria cucina “nazionale” sia migliore di quella degli altri Paesi. In un’intervista ad Altraeconomia, il ricercatore sostiene che questo modo di pensare punta ad affermare delle «superiorità ontologiche del tutto carenti di fondamento sia dal punto di vista culturale sia dal punto di vista nutrizionale». E non è una prerogativa della destra.
In misura diversa, infatti, la convinzione che la cucina italiana sia la migliore del mondo trascende dall’orientamento politico. Fino ritiene il gastronazionalismo dilagante particolarmente pericoloso perché è una forma di «nazionalismo banale». Essere estremamente difensivi sul cibo e le tradizioni culinarie, infatti, incontra una certa indulgenza e viene spesso scambiato per orgoglio patriottico; in realtà però, come sottolineato sempre da Fino, «spalanca la porta ad affermazioni di superiorità nazionali di portata ben ulteriore rispetto alla semplice tavola»..
Oltre al rischio politico di cadere in una mentalità suprematista secondo cui “l’Italia è meglio” in senso assoluto, il nazionalismo culinario che pervade la mentalità italiana delle ultime generazioni può avere conseguenze negative anche a livello culturale ed economico. Secondo lo storico Andrea Grandi, infatti, questa mentalità «irrigidisce la tradizione e toglie alla cucina la capacità di cambiare», che è in effetti la sua essenza. In altre parole, lo storico ci tiene a sottolineare una verità tanto scontata quanto dimenticata: la tradizione altro non è che un’innovazione che ha avuto successo. Anche Michele Fino è di quest’idea: a Facta ha evidenziato che il purismo culinario italiano è controproducente per due aspetti: «da un lato limita le innovazioni» e dall’altro «corrompe la correttezza del mercato dei prodotti italiani, e inquina il marketing».
A livello economico, inoltre, il gastronazionalismo avalla quella che secondo Grandi è un’altra grande bugia, secondo cui la ricchezza d’Italia sarebbe nella produzione enogastronomica. «La realtà», afferma Grandi nel podcast Ma perché? è che «riusciamo a produrre cibo perché siamo ricchi, non il contrario». Lo storico ricorda anche che durante il Grand Tour, un viaggio intrapreso dai ricchi dell’aristocrazia europea a partire dal 17esimo secolo, i viaggiatori dell’epoca raccontavano che in Italia c’era una povertà estrema e si mangiava male.
Ma qual è l’importanza di conoscere questa storia e tutti i falsi miti che circondano la cucina italiana? A Facta Michele Fino risponde che «non sono solo questioni di cibo». È importante sapere la storia dei nostri piatti e sfatare il mito della “tradizione culinaria italiana” per rendersi conto che non siamo altro che «un crocevia di culture di cui la cucina è solamente una manifestazione».
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