
L’arrivo dei browser con l’IA integrata potrebbe essere la fine del web come lo conosciamo
Atlas di OpenAI e Comet di Perplexity, tra gli altri, promettono di navigare al posto dell’utente, ma rischiano di mettere in crisi l’idea stessa di un web aperto e verificabile
Negli ultimi mesi è arrivata una nuova categoria di software per navigare online: i browser “nati con l’IA dentro”. Finora il browser era una finestra neutra, un semplice strumento attraverso cui digitare indirizzi o fare ricerche. In realtà, anche in quel modello, apparentemente trasparente, i risultati erano già filtrati: venivano ordinati e mostrati in base a criteri geografici, commerciali o algoritmici definiti dallo strumento di ricerca integrato (o da quello scelto manualmente). Oggi, però, si sta compiendo un salto di qualità: il browser non si limita più a mostrarti il web, ma inizia a interpretarlo insieme a te.
Alcuni nuovi prodotti – come Atlas di OpenAI, l’esperimento Claude for Chrome di Anthropic, i nuovi modelli di Edge di Microsoft e il browser Comet di Perplexity – vogliono essere qualcosa di diverso: un assistente attivo che capisce cosa stai cercando di fare e lo fa al posto tuo, direttamente mentre navighi. OpenAI ha presentato Atlas come un browser (basato su Chromium di Google) costruito “con ChatGPT al centro”, con una barra laterale che legge la pagina che hai aperto, la riassume, confronta offerte, compila moduli e può persino riscrivere testi per te.
I nuovi browser IA sul mercato
Secondo la società guidata dal CEO Sam Altman, la modalità Agent Mode consente al sistema di svolgere intere attività in autonomia, come organizzare un viaggio o cercare prodotti da comprare, ed è in fase di test per alcuni abbonati premium. Atlas è stato lanciato prima su macOS e dovrebbe arrivare anche su Windows, iOS e Android. L’annuncio ha avuto un effetto immediato in Borsa, facendo scendere il titolo Alphabet (la società madre di Google) di circa il 4 per cento nei giorni del lancio, segno che il mercato interpreta Atlas come una minaccia diretta al dominio di Chrome e di Google Search. Su Atlas l’intelligenza artificiale non è più un servizio esterno: è il cuore stesso del browser.
Finora l’uso normale di internet è stato: apro il browser, scrivo qualcosa nella barra, finisco nella maggior parte dei casi su Google, che è un motore di ricerca (un sistema che scandaglia il web, indicizza i contenuti e li ordina per rilevanza, restituendo una lista di link blu su cui cliccare), poi clicco su un link, poi su altro, poi su un altro ancora. Google domina questo passaggio da oltre vent’anni, con quote di mercato globali intorno all’89-90 per cento.
Nei browser di nuova generazione questo percorso viene saltato. Anthropic sta testando Claude for Chrome, un’estensione che mette l’assistente Claude dentro Chrome come pannello laterale. Può leggere la pagina che stai guardando, cliccare bottoni, riempire moduli, aiutarti a prenotare appuntamenti o a gestire note spese con un linguaggio naturale. Microsoft, con Edge, sta introducendo la modalità Copilot Mode, in cui l’assistente Copilot può vedere – se l’utente dà il permesso – tutte le schede aperte, confrontare hotel e prezzi, riassumere quello che ha già trovato e persino compilare prenotazioni, unendo in un’unica casella ricerca, chat e navigazione. Perplexity, startup sostenuta da investitori come Nvidia e Jeff Bezos, ha lanciato il proprio browser Comet, un’interfaccia conversazionale che può ricercare sul web, confrontare prodotti, sintetizzare contenuti lunghi e automatizzare operazioni complesse.
Tutte queste funzioni hanno un nome tecnico ricorrente nel settore: “agentic browsing”, o capacità “agente”, un sistema che non si limita a rispondere a domande ma agisce per raggiungere un obiettivo, ad esempio compila un modulo, confronta offerte o prenota un servizio al posto tuo.
La minaccia che aleggia su Google
Per vent’anni Google è stato il cancello principale per entrare nel web e, di fatto, la struttura che decideva quali siti avevano visibilità, lettori e quindi ricavi pubblicitari grazie ai suoi algoritmi di posizionamento. Il motore di ricerca non è solo una tecnologia, è il centro di un sistema pubblicitario da decine di miliardi di dollari l’anno, alimentato dal traffico che Google indirizza verso i siti di terze parti e dagli annunci sponsorizzati che compaiono accanto ai risultati. Se però l’utente inizia a chiedere direttamente al browser “trova per me l’hotel migliore sotto i 150 euro vicino alla stazione” e riceve la risposta già filtrata e pronta, senza mai passare da Google, allora Google perde visibilità e dati sulle intenzioni dell’utente e rischia di perdere le inserzioni pubblicitarie associate a quelle ricerche. Per questo, strumenti basati sull’IA come Perplexity o i nuovi browser di OpenAI e Anthropic vengono descritti da analisti e investitori come una minaccia alle quote di mercato del colosso di Mountain View nella ricerca online.
Google sta reagendo in modo molto aggressivo. Dal 2024 ha introdotto gli AI Overviews: blocchi di testo generati dall’IA che compaiono sopra i risultati tradizionali e che riassumono direttamente una risposta, spesso con pochi link di riferimento, come se si trattasse di una scheda informativa già pronta e verificata. A maggio 2024 Google aveva parlato di «centinaia di milioni di utenti»; a inizio 2025 l’amministratore delegato Sundar Pichai ha dichiarato che gli AI Overviews raggiungono più di 1,5 miliardi di persone al mese nel mondo e che la loro implementazione continuerà. L’obiettivo è evitare che l’utente lasci Google per chiedere a un altro assistente e fornire la risposta già confezionata dentro il suo ecosistema. Allo stesso tempo, Chrome sta diventando sempre più un browser con IA integrata. Google sta inserendo Gemini, il suo modello linguistico generativo, direttamente in Chrome. Può riassumere le pagine che stai leggendo, confrontare schede aperte su più siti, ricordarti dove avevi visto “quell’offerta di hotel con cucina vicino alla spiaggia”, costruire un itinerario di viaggio combinando voli e alberghi, e perfino – nei test interni annunciati da Google – prenotare appuntamenti come un taglio di capelli o fare la spesa settimanale, agendo sulle pagine al posto tuo. Google promette che potrà anche aiutare a fissare riunioni e proporre orari liberi direttamente da Gmail, leggendo il contenuto della mail e incrociandolo col calendario dell’utente. L’idea è trasformare Chrome in un assistente operativo continuo, simile a ciò che Perplexity fa con Comet e Microsoft con Copilot Mode in Edge, e far sì che l’utente non abbia più bisogno di uscire dall’ambiente Google.
I browser stanno cambiando, non necessariamente in meglio
Questa trasformazione rende il browser sempre più una figura di “gatekeeper totale” (filtra quali contenuti passano e quali no). Per anni Google è stato il gatekeeper per antonomasia perché stabiliva l’ordine dei risultati e quindi influenzava chi riceveva traffico, lettori e guadagni pubblicitari. Adesso però sta cambiando la forma del gatekeeping: invece di una lista di link, l’utente vede direttamente una risposta sintetizzata dall’IA. Se quella risposta è incompleta, distorta o sbagliata, l’utente potrebbe non accorgersene perché non sente più la necessità di cliccare sui siti originali e verificare le fonti. I problemi non sono teorici. Nei primi mesi di test pubblici, gli AI Overviews di Google sono diventati virali per suggerimenti errati e talvolta pericolosi: fra gli esempi più discussi, il consiglio di aggiungere colla alla salsa della pizza per far aderire meglio il formaggio e l’idea che «mangiare una piccola roccia al giorno» faccia bene alla salute. Dopo l’ondata di critiche, l’azienda ha dichiarato di avere «corretto i casi più estremi», limitando le richieste che attivano gli AI Overviews e filtrando meglio contenuti satirici o deliberatamente fuorvianti. La big tech sostiene che la maggioranza dei riassunti è accurata e utile e che gli errori più clamorosi derivano spesso da interrogazioni assurde pensate per farla cadere in trappola, mentre i critici fanno notare che anche un numero ridotto di risposte sbagliate è comunque un problema se l’utente smette di leggere le fonti originali.
Gli effetti economici di questo nuovo modello stanno già emergendo. Una ricerca del Pew Research Center pubblicata a luglio 2025 ha rilevato che gli utenti che vedono un riepilogo IA sono meno propensi a cliccare sui siti esterni rispetto a chi vede solo i classici link. Analisi tecniche di società come Ahrefs parlano di cali del 34-35 per cento del tasso di clic sui risultati che prima occupavano la prima posizione, dopo l’introduzione degli AI Overviews. Altre stime citate dalla stampa internazionale arrivano a cali fino al 46 per cento, e alcuni editori parlano di perdite di traffico nell’ordine del 70-80 per cento quando il loro articolo, pur essendo tra i primi risultati organici, viene riassunto dall’IA di Google. Google contesta alcune di queste metodologie e sostiene che, in media, l’IA «manda traffico verso una maggiore varietà di siti», e che gli AI Overviews sono utili e affidabili nella grande maggioranza dei casi. Ma diversi editori dicono già di vedere un impatto diretto nei bilanci. A settembre 2025 Penske Media Corporation – che controlla testate come Rolling Stone, Variety, Billboard e The Hollywood Reporter – ha fatto causa a Google in un tribunale federale di Washington, accusando l’azienda di ridurre il proprio traffico con gli AI Overviews – riducendo di conseguenza entrate pubblicitarie e di affiliazione – e di riutilizzare contenuti giornalistici senza autorizzazione. Penske sostiene che fino al 20 per cento delle ricerche che portano alle sue testate ora mostra direttamente un AI Overview sopra i risultati e che questo sta facendo calare in modo sensibile il traffico e quindi gli introiti. Anche le associazioni degli editori italiani hanno presentato un esposto all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom) accusando Google di “cannibalizzare” il traffico delle testate nazionali con i riassunti IA, e chiedendo all’Unione europea di intervenire perché questa pratica rischia di danneggiare il pluralismo dell’informazione. In parallelo, Perplexity – che viene spesso accusata dagli editori di riutilizzare articoli senza ricompensarli – ha annunciato un programma di revenue sharing, cioè di condivisione dei ricavi pubblicitari con i siti web citati nelle sue risposte, un tentativo di presentarsi come alternativa sostenibile al modello di Google. Non tutti gli editori sono convinti che basti e le cause contro Perplexity per presunta violazione del copyright continuano ad accumularsi, anche da parte di grandi gruppi editoriali statunitensi, giapponesi ed europei che denunciano l’uso dei loro articoli per addestrare o alimentare motori di risposta IA senza licenza.
Un cambiamento storico
Quello che sta succedendo poi ha un’altra conseguenza: modifica il funzionamento stesso del web aperto. Il web aperto è nato come una rete di pagine collegate tra loro da link ipertestuali. Per oltre vent’anni l’economia dell’informazione è stata: io pubblico una pagina, Google (o un altro motore) la indicizza, gli utenti cercano parole chiave, trovano il mio link, cliccano, leggono. Per aumentare le probabilità di essere trovati, milioni di siti hanno investito tempo e denaro nella SEO, la Search Engine Optimization, l’insieme di tecniche per far comparire un contenuto più in alto nei risultati dei motori di ricerca. La SEO ha prodotto effetti collaterali evidenti – titoli acchiappa click, testi scritti “per l’algoritmo” e non per il lettore – ma ha anche sostenuto un ecosistema di siti medio-piccoli, blog specializzati, forum tecnici, testate locali e verticali. Oggi però il flusso si sta spezzando. Se chiedo qualcosa al browser e il browser risponde direttamente, io non vedo più il link, non vedo più il nome del sito, non memorizzo più la fonte. Le ricerche “zero click”, quelle in cui l’utente ottiene la risposta senza cliccare alcun risultato esterno, erano già un fenomeno in crescita prima degli AI Overviews, soprattutto su Google mobile, e nel 2024 uno studio di SparkToro stimava che su 1.000 ricerche fatte negli Stati Uniti, poco più di un terzo dei clic finisse effettivamente sul “web aperto”, cioè fuori da Google, mentre il resto restava dentro l’ecosistema del motore. L’arrivo massiccio dei riassunti IA – e adesso dei browser-agente che fanno tutto da sé, come Atlas, Comet, Copilot Mode e Gemini in Chrome – accelera questo passaggio. Il rischio è che la finestra sul web aperto venga sostituita da un unico sportello di risposta, gestito da pochissime aziende globali i cui modelli IA selezionano quali informazioni mostrarti, in quale ordine e con quale tono, basandosi sul modo in cui sono stati programmati.
Questa concentrazione di potere informativo non è passata inosservata. Negli Stati Uniti il dipartimento di Giustizia (DoJ) ha già ottenuto in tribunale una dichiarazione formale secondo cui Google mantiene un monopolio nella ricerca e nella pubblicità di ricerca e sta chiedendo rimedi molto invasivi per «ripristinare la concorrenza», compreso il divieto per Google di pagare produttori di smartphone e altri partner per restare il motore di ricerca predefinito e l’obbligo di condividere parte dei propri dati di ricerca con concorrenti emergenti. Nelle udienze di primavera ed estate 2025, il DoJ ha proposto anche scenari estremi, come la possibilità di costringere Google a scorporare Chrome o a impedire accordi di esclusiva che bloccano altri motori di ricerca sui telefoni e nei browser; ipotesi che il CEO di Google Sundar Pichai ha definito rimedi straordinari» con potenziali «conseguenze impreviste». Se il browser diventa un agente IA che ti risponde, e se quella IA è sviluppata e controllata dalla stessa azienda che controlla il motore di ricerca, la pubblicità e il sistema operativo del telefono, allora secondo il DoJ il rischio non è soltanto economico, ma informativo, perché un singolo soggetto può condizionare ciò che milioni di persone sanno o non sanno.
Per questi motivi, molti osservatori parlano di fine del web come lo conosciamo. Con questa frase, non si intende che i siti scompariranno da un giorno all’altro, ma che potremmo smettere di andarci. Se otteniamo tutto in forma di risposta sintetica, e sempre più spesso lasciamo che il browser-agente esegua azioni per noi – confrontare tariffe, compilare moduli della pubblica amministrazione, prenotare un viaggio, fissare un appuntamento dal parrucchiere – la navigazione fatta di link, tab, lettura critica e confronto diretto tra fonti rischia di diventare un’abitudine per pochi utenti esperti e non più il comportamento standard.
Atlas di OpenAI promette di «seguire il tuo flusso di lavoro» e ricordare preferenze, cronologia e perfino dettagli personali, con funzioni di memoria attivabili e disattivabili dall’utente. Gemini in Chrome promette di eliminare la fatica di tenere aperte dieci schede per pianificare un viaggio perché può leggere tutte le schede per te, riassumere, confrontare e generare un itinerario unico. Copilot Mode in Edge promette di guardare tutte le tue tab per suggerirti quale hotel scegliere o quale negozio online ha il prezzo migliore, e in prospettiva anche di prenotare direttamente, usando le tue credenziali salvate se dai il consenso. Perplexity, con Comet, dichiara di voler diventare un’alternativa a Chrome e di voler «automatizzare il lavoro di ricerca sul web», posizionando il browser stesso come assistente operativo e non più come semplice finestra neutra. Tutto questo rende l’accesso all’informazione più veloce e, per molti utenti, meno frustrante. Allo stesso tempo ci allontana dalla necessità di verificare, confrontare e scegliere le nostre fonti, mentre l’uso dei modelli IA renderebbe tutto più facile, veloce e – al contempo – meno attendibile.
Il passaggio dai link alle risposte preconfezionate significa che la figura del modello di intelligenza artificiale diventa centrale. Se fino a ieri la domanda era “quale risultato gli algoritmi di posizionamento di Google mettono al primo posto?”, domani la domanda diventerà “quale versione dei fatti l’assistente IA del mio browser mi fornisce?”. Questo rende ancora più urgente chiedere trasparenza sulle fonti citate dai riassunti IA, compensi equi per chi produce informazione originale e limiti chiari al potere di chi controlla sia il browser sia il modello di IA che scrive la risposta. Il browser con IA integrata vuole diventare il nuovo punto d’ingresso obbligato al web, superando il modello “apro Google e clicco un link”, ma così facendo rischia di trasformarsi in qualcosa che decide ciò che vediamo, leggiamo e perfino facciamo online.
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