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La guerra dei dazi tra USA e Cina si combatte anche su TikTok

Con l’annuncio delle nuove tariffe doganali, molti produttori cinesi hanno inondato i social di video promozionali per sponsorizzare i propri prodotti all’estero

9 maggio 2025
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Con la proclamazione di quello che è stato definito “Liberation Day” del 2 aprile 2025, Donald Trump ha iniziato a mettere in pratica la sua intenzione di riscrivere le regole del commercio mondiale, nel nome del principio “America first”. In quell’occasione, il presidente degli Stati Uniti ha annunciato una serie di tariffe doganali senza precedenti con l’obiettivo di ristabilire l’«indipendenza economica» del Paese. 

Durante un discorso tenuto nel famoso giardino delle rose della Casa Bianca, Trump ha annunciato l’introduzione di una tariffa universale del 10 per cento su tutte le importazioni, con alcune eccezioni, e ha introdotto dazi “reciproci” più elevati per circa 90 Paesi. Tra questi, la Cina è stata colpita da una tariffa del 54 per cento, diventando il principale bersaglio della guerra commerciale voluta dall’ex presidente. Su alcuni prodotti cinesi, però, l’effetto combinato di vari dazi ha portato l’aliquota finale a superare il 145 per cento. In risposta, Pechino ha imposto tariffe sul Made in USA dal 34 all’84 per cento, aprendo comunque una trattativa per scongiurare un’escalation di tensioni commerciali che potrebbe avere pesanti ripercussioni su entrambe le superpotenze economiche.     

Ma la guerra economica non si combatte solo attraverso la diplomazia. All’indomani dell’annuncio dell’aumento dei dazi, e il conseguente crollo delle esportazioni verso gli Stati Uniti d’America, molti produttori cinesi hanno inondato TikTok, e altri social network, con i loro video promozionali in cui si rivolgono agli utenti statunitensi esortandoli a comprare direttamente dalle loro fabbriche prodotti identici agli articoli di marchi di lusso e alta moda. 

Borse, gioielli e vestiti a prezzi minori

Uno dei video diventati virali su TikTok è stato girato da un ragazzo cinese che promette di svelare il reale costo dell’iconica borsa Birkin di Hermès, il cui prezzo sul mercato statunitense sarebbe di 38 mila dollari (circa 33.500 euro). Secondo quanto riportato nel video, acquistando in una fabbrica cinese la stessa borsa sarebbe possibile pagarla poco meno di 1.400 dollari. Nel filmato il lavoratore elenca tutti i materiali che sarebbero utilizzati per creare la borsa e il relativo prezzo, affermando che nella fabbrica dove lavora vengono utilizzate le stesse materie prime, ma il prezzo è decisamente più basso perché manca il logo. Altri contenuti, invece, pubblicizzano gioielli o prodotti di altri grandi marchi, addirittura materassi da letto e case prefabbricate

Negli Stati Uniti, diversi utenti dei social media hanno iniziato a sostenere e diffondere contenuti legati alla produzione cinese, ad esempio pubblicando liste di aziende da cui acquistare prodotti a prezzi competitivi. Su piattaforme come TikTok e Instagram, questo tipo di post sono accompagnati da hashtag come #ChinaFactory, #ChineseFactory e #ChinaManufactory e in molti casi hanno decine di migliaia di likes. Inoltre, spesso questi filmati promuovono l’utilizzo di app di e-commerce cinesi, come Taobao e DHgate. Secondo la società di market intelligence Sensor Tower, a metà aprile, queste due applicazioni sono state tra le app per iPhone più scaricate negli Stati Uniti.

Tianyu Fang, ricercatore del think tank New America dove si occupa di studiare la competizione geopolitica tra Stati Uniti e Cina, ha spiegato alla MIT Technology Review che le fabbriche cinesi sono state ispirate dal successo che avevano già avuto in passato su TikTok con questo tipo di contenuti. Secondo Fang, dal 2020, i video delle fabbriche che mostrano le catene di montaggio che producono oggetti di uso quotidiano hanno accumulato milioni di visualizzazioni. 

Secondo il New York Times, i venditori cinesi hanno iniziato a postare questo tipo di contenuti quando le vendite sono diminuite. Yu Qiule ha dichiarato al quotidiano statunitense che ha iniziato a pubblicare video su TikTok a metà marzo, nel tentativo di trovare nuovi clienti. Co-proprietario di un’azienda manifatturiera che produce attrezzature per il fitness nella provincia orientale di Shandong, in Cina, Qiule ha raccontato che un’ondata di ordini annullati, causata dall’aumento delle tariffe, lo ha spinto a cercare soluzioni alternative per sostenere il business. Un altro venditore, invece, sempre sentito dal New York Times, ha raccontato di aver cercato nuovi mercati all’estero attraverso i social, dopo aver perso clienti a causa delle tensioni commerciali e delle tariffe imposte dagli Stati Uniti.

Tuttavia, secondo gli esperti, è improbabile che un’ampia fetta di consumatori americani scelga di comprare direttamente dalle fabbriche, poiché il processo presenta numerose difficoltà logistiche. 

Secondo Cheng Mingming, professore di marketing digitale presso la Curtin University, in Australia, le implicazioni di questa vendita diretta sono ancora simboliche. Il professore, infatti, ha dichiarato al media australiano ABC che «i produttori vogliono che le persone si rendano conto che la guerra dei dazi non è la strategia migliore per i consumatori e potrebbe avere un impatto negativo su di loro». In altre parole, secondo Mingming i produttori vogliono far percepire al pubblico statunitense che la Cina mette a disposizione numerosi prodotti economici capaci di rispondere alle loro necessità, così da indurli a rendersi conto che i dazi imposti dagli Stati Uniti hanno avuto un impatto concreto e negativo sul loro quotidiano.

Prodotti originali o fake

La diffusione di questi video ha acceso soprattutto i riflettori sull’autenticità dei prodotti promossi.

Secondo alcuni esperti di vendita al dettaglio è improbabile che i video più virali, come quello che afferma di essere il produttore di Hermès, stiano davvero vendendo articoli autentici. Sucharita Kodali, analista del settore retail per la società di ricerca e consulenza Forrester,     ha spiegato che le fabbriche che producono in Cina prodotti per brand di lusso spesso firmano accordi di non divulgazione molto rigidi ed è improbabile che distruggano i rapporti con queste aziende per promuovere la vendita diretta su social come TikTok, senza avere la sicurezza di riuscire a vendere davvero. 

Proprio un portavoce di Hermès, contattato dal New York Times, ha confermato che le sue borse sono prodotte al 100 per cento in Francia e ha rifiutato di commentare ulteriormente il contenuto dei video circolati su TikTok. Una portavoce di Birkenstock, un altro dei marchi al centro dell’’ondata virale, ha dichiarato che i video mostravano imitazioni e che le sue calzature erano progettate e prodotte nell’Unione europea. L’azienda ha anche dichiarato di aver contattato TikTok e che i video iniziali sono stati cancellati il 15 aprile e altri profili non risultano essere più attivi

In un video pubblicato su TikTok, un’influencer che si fa chiamare “Luna Sourcing China” pubblicizza due fabbriche che dovrebbero essere situate a Yiwu, una città a 300 chilometri a sud ovest di Shanghai, famosa per il suo mercato all’ingrosso, sostenendo che il marchio di abbigliamento sportivo Lululemon si rifornirebbe direttamente da loro, rivendendo articoli come i leggings – che all’origine costerebbero tra i 5 e i 6 dollari – a prezzi di gran lunga superiori, intorno ai cento dollari. Le due fabbriche menzionate nel filmato, però, non appaiono nell’elenco dei fornitori di Lululemon aggiornato al mese di aprile 2025, che mostra come il noto brand collabori con fabbriche situate in Cina, ma anche in Vietnam, Cambogia e Perù. Si tratta, con tutta probabilità, di prodotti contraffatti che già nel 2023 Lululemon aveva provato a contrastare.  

Se è vero che molti brand di lusso svolgono una parte della produzione in Cina, ad esempio preassemblando componenti complessi di orologi o confezioni di borse, per poi completare l’unione finale dei componenti in Francia o in Italia, risalire all’origine esatta dei singoli elementi è difficile, perché le filiere del lusso sono spesso opache. Secondo Regina Frei, docente di sistemi sostenibili e circolari presso la University of the Arts di Londra, anche stabilimenti situati in Italia o in altri Paesi europei possono essere legati alla Cina, ad esempio attraverso la proprietà o la gestione.

Nel tentativo di reagire alla perdita di mercato internazionale e alle restrizioni imposte dai dazi dell’era Trump, molte fabbriche cinesi hanno iniziato a raccontarsi online trasformando le linee di produzione in vetrine digitali: mostrano laboratori, macchinari, operai al lavoro, e aprono virtualmente le porte dei magazzini. Quello che era partito come un’iniziativa isolata di alcuni intermediari del settore si è trasformato in un vero e proprio fenomeno social che mescola protesta, marketing e adattamento. Si tratta, più che altro, di una risposta collettiva ai vincoli commerciali. Piccoli operatori e piattaforme emergenti stanno cercando nuovi canali di vendita, promuovendo contenuti direttamente dalla fabbrica come via alternativa per raggiungere il mercato, anche se in realtà, spesso, ciò che vendono non corrisponde esattamente a ciò che pubblicizzano.

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