
La disinformazione sulla cittadinanza che avvelena la campagna referendaria
Il referendum sulla cittadinanza ha dovuto affrontare numerosi tentativi di boicottaggio, tra inviti all’astensione e campagne d’odio e disinformazione
Domenica 8 e lunedì 9 giugno 2025, le elettrici e gli elettori italiani saranno chiamati alle urne per esprimersi su cinque quesiti referendari: quattro toccano il mondo del lavoro, mentre uno riguarda la cittadinanza.
Si tratta di referendum abrogativi, cioè consultazioni in cui si chiede agli elettori se vogliono eliminare una legge, o una parte di essa. Perché il risultato sia valido, deve partecipare almeno la metà più uno degli aventi diritto al voto: è il cosiddetto quorum, previsto dall’articolo 75 della Costituzione italiana. Una delle novità per questa tornata elettorale è la possibilità, per la prima volta, di votare nel comune di domicilio – senza dover rientrare in quello di residenza – per chi si trovi in un’altra provincia da almeno tre mesi (inclusa la data del voto) per motivi di studio, lavoro o salute. Per usufruire di questa opportunità era necessario presentare un’apposita richiesta entro il 4 maggio.
Il referendum sulla cittadinanza si inserisce in una lunga serie di iniziative, promosse negli ultimi decenni, per riformare una legge ritenuta da molti inadeguata. Si tratta di un tema che ha spesso sollevato critiche, fino ad arrivare a discorsi d’odio di natura politica e ideologica, rafforzati dalla retorica «prima gli italiani». Anche quest’ultimo tentativo non ha avuto vita facile: tra inviti all’astensione e vere e proprie campagne d’odio e disinformazione, ha dovuto affrontare numerosi tentativi di boicottaggio lungo il suo percorso.
Cosa prevede il referendum sulla cittadinanza
Il 4 settembre 2024 il segretario del partito +Europa Riccardo Magi, insieme ad altri gruppi, ha depositato in Cassazione il testo di un referendum che propone di dimezzare gli anni di residenza minima richiesti per effettuare la domanda di cittadinanza in Italia, portandoli da 10 a 5. I promotori hanno successivamente raccolto 637.487 firme – primo passo necessario per validare il percorso referendario – e il 31 marzo 2025 il presidente della Repubblica ha indetto il referendum popolare abrogativo dopo che il quesito è stato approvato dalla Corte Costituzionale. Si tratta di un’iniziativa nata dal basso, in cui sono in prima linea associazioni di persone con background migratorio come Italiani senza cittadinanza, Idem Network e CoNNGI.
Ad oggi la cittadinanza è regolata dalla legge numero 91 del 1992, la quale prevede che chi è nato fuori dall’Unione europea e ha più di 18 anni possa ottenere la cittadinanza italiana solo dopo aver vissuto legalmente nel Paese per almeno dieci anni. Questo requisito si riduce a quattro anni per i cittadini dell’Unione europea e a cinque per le persone apolidi, ovvero prive di qualsiasi cittadinanza.
Il referendum dell’8 e 9 giugno propone di cancellare il vincolo dei dieci anni, uniformandolo a quanto già previsto per chi viene adottato da un cittadino italiano. Se il quesito venisse approvato, qualsiasi cittadino straniero potrebbe richiedere la cittadinanza dopo cinque anni di residenza continuativa in Italia. Non si tratta, infatti, di un automatismo, ma raggiunto il vincolo di residenza e soddisfatti altri vari criteri, lo straniero interessato dovrebbe presentare domanda per ottenere la cittadinanza italiana, avviando una procedura burocratica che può richiedere anche diversi anni. Una volta ottenuta, la cittadinanza verrebbe automaticamente estesa anche ai figli e alle figlie minorenni.
Gli elettori che andranno a votare riceveranno una scheda per ogni quesito referendario. Cinque schede di colore diverso: quella che riguarda la cittadinanza sarà gialla.
Una corsa a ostacoli tra campagne d’odio e appelli all’astensione
Fin da subito il referendum sulla cittadinanza non ha avuto vita facile, criticato da molti politici e cittadini per ragioni sia politiche che puramente ideologiche.
Nel settembre 2024, durante la raccolta firme necessaria per depositare il referendum alla Cassazione, diversi personaggi pubblici come il fumettista Zerocalcare o il cantante Ghali, si erano esposti a favore della campagna, sostenendo l’iniziativa. Dall’altro lato, però, nello stesso periodo, su X, un hashtag razzista (che la redazione di Facta ha scelto di non riportare) aveva conquistato il podio tra i temi di tendenza sulla piattaforma.
DeRev, società di consulenza che fa strategie social, aveva effettuato per Wired un’analisi dei contenuti legati a questo hashtag e alla narrazione d’odio contro il referendum che si era diffusa insieme a questo. Il 24 settembre 2024 l’hashtag violento e offensivo aveva raggiunto in poche ore i 3 mila post e il primo posto nei trend topic. Secondo DeRev i primi a fare uso dell’etichetta poi diventata virale erano stati quattro utenti che avevano commentato un post in cui lo storico e giornalista Gennaro Carotenuto invitava a firmare a sostegno del referendum. Tra questi due erano profili falsi, uno dei quali conteneva riferimenti nascosti a Hitler. Tutti gli altri post che contenevano questa etichetta razzista e discriminatoria erano partiti da una decina di altri profili falsi, che hanno iniziato a usarla a raffica per farla circolare e diventare popolare. Obiettivo riuscito: dopo poche ore l’hashtag è stato ripreso da utenti reali, convinti che ci fosse un movimento autentico dietro.
Sempre secondo quanto riportato da Wired, gli analisti di DeRev hanno concluso che il movimento contrario al referendum non sia nato, in realtà, da un movimento spontaneo, ma da una manciata di profili falsi coordinati. E a favorirne la diffusione è stato soprattutto il luogo virtuale dove sono circolati: X, dove l’assenza di moderazione ha fatto diventare la piattaforma il paradiso di estremisti, complottisti e antisemiti, popolato da influencer di estrema destra e comunità online estremamente misogine.
Nonostante questa campagna d’odio, la proposta è riuscita a superare il traguardo delle 500 mila firme necessarie e il referendum è stato indetto per l’8 e il 9 giugno. Il percorso, però, è stato tutt’altro che semplice. Una volta fissata la data, i partiti di governo hanno cercato in ogni modo di ostacolarne l’esito, invitando apertamente cittadini e cittadine a disertare le urne, puntando sull’astensione per far mancare il quorum e invalidare la consultazione.
Il vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani ha difeso la scelta di non partecipare al voto, definendola legittima e politica, non un segno di disinteresse. Secondo Tajani, l’astensione rientra nelle regole previste dalla legge sul quorum e rappresenta un modo per esprimere dissenso verso un referendum che il suo partito non condivide.
Anche la Lega ha confermato la strategia dell’astensione, definendola una scelta consapevole e costituzionalmente legittima, con l’obiettivo dichiarato di far fallire il raggiungimento del quorum. Fratelli d’Italia, inoltre, avrebbe diffuso una circolare interna per spingere i propri esponenti a sostenere la stessa linea e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, a margine delle celebrazioni per la Festa della Repubblica del 2 giugno, ha dichiarato: «Vado a votare e non ritiro la scheda, è una delle opzioni». In effetti, un elettore o un’elettrice può presentarsi al seggio e scegliere di non ritirare una o più schede referendarie, è una possibilità prevista dalla legge, che equivale però ad astenersi, poiché il suo voto non verrà conteggiato ai fini del quorum.
No, l’Italia non concede più cittadinanze rispetto ad altri Paesi europei
Un altro elemento che mette a dura prova l’esito del referendum è la disinformazione. Tra le motivazioni contro il “Sì” che si sono diffuse nei mesi precedenti al voto, c’è quella secondo cui l’Italia sarebbe il Paese dell’Unione europea che concede più cittadinanze e per questo motivo non ci sarebbe alcuna necessità di allentare i criteri di concessione – come invece chiede di fare il quesito referendario.
Anche alcuni esponenti del governo hanno ribadito la loro opposizione alla riforma della cittadinanza, utilizzando questa argomentazione. Ad esempio il sottosegretario leghista Nicola Molteni, intervistato da La Stampa il 12 agosto, ha dichiarato: «La legge sulla cittadinanza c’è, funziona, non va cambiata. L’Italia è il Paese in Europa che concede più cittadinanze, oltre 130 mila all’anno, più di Francia e Germania». Una posizione confermata anche da Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, che ha sottolineato come l’Italia sia ai vertici in Europa per numero di concessioni.
Come ha spiegato Pagella Politica, nel 2022 l’Italia è stato il Paese dell’Unione europea che ha concesso più cittadinanze a cittadini stranieri: quasi 214 mila, superando Spagna, Germania e Francia. Un netto aumento rispetto all’anno precedente, quando le nuove cittadinanze erano state poco più di 121 mila, un dato allora inferiore a quello di altri grandi Paesi europei.
Nel decennio 2013–2022, l’Italia ha concesso complessivamente circa 1,46 milioni di cittadinanze, più di qualsiasi altro Stato membro dell’UE. Tuttavia, se si guarda al rapporto tra cittadinanze concesse e popolazione residente, nel 2022 l’Italia scende al quinto posto, con 3,6 cittadinanze ogni mille abitanti, dietro a Svezia, Lussemburgo, Belgio e Spagna.
Inoltre, sebbene i numeri sulle cittadinanze concesse possano far pensare che l’Italia abbia una delle leggi più generose d’Europa, in realtà la normativa italiana è tra le più restrittive.
La legge in vigore risale al 1992 e si basa sul principio dello ius sanguinis, la cittadinanza cioè si trasmette per discendenza e non per nascita sul territorio. I bambini stranieri nati in Italia possono richiedere la cittadinanza solo al compimento dei 18 anni, a condizione di aver risieduto continuativamente nel Paese. Per gli adulti stranieri, il requisito è di almeno dieci anni di residenza legale.
A confronto, le leggi di Paesi come Francia, Germania e Spagna sono più flessibili, prevedendo tempi di attesa più brevi o condizioni meno rigide.
Anche Insaf Dimassi, ricercatrice in Scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna, durante la trasmissione “Materia grigia” di Sky TG24, andata in onda il 9 dicembre 2024, ha sottolineato come in realtà questa narrazione non contestualizzi i dati in maniera corretta. Secondo Dimassi (dal minuto 06:50), «come valore assoluto questo dato è corretto» ma va, appunto, contestualizzato. «L’Italia concede così tante cittadinanze» ha continuato la ricercatrice «perché i ragazzi che nascono nel nostro Paese nascono stranieri e poi diventano cittadini italiani». Questo, invece, non succede in Paesi dell’UE come la Germania, dove esiste una sorta di ius soli. Insaf Dimassi ha continuato spiegando che in questo Paese chi nasce sul territorio tedesco con un genitore residente da almeno otto anni nasce automaticamente tedesco. Di conseguenza il conteggio delle cittadinanze concesse è più basso, ma perché c’è una legge più agevole nello Stato.
In Francia, un bambino straniero che nasce sul territorio nazionale acquisisce la cittadinanza francese se almeno uno dei genitori è nato nel Paese. Inoltre, può richiedere la cittadinanza al compimento dei 18 anni, a condizione di aver vissuto in Francia per almeno cinque anni a partire dagli 11 anni. In alternativa, può ottenerla già dai 13 anni se ha vissuto continuativamente in Francia fin dall’età di 8 anni.
La rigidità della legge italiana sulla cittadinanza è confermata anche da indicatori internazionali come il Migrant integration policy index, che nel 2019 assegnava all’Italia un punteggio di 40 su 100 per l’accesso alla cittadinanza, uno dei più bassi in Europa. Anche il Global Citizenship Observatory (Globalcit) ha evidenziato come il sistema italiano resti tra i più severi dell’Unione europea.
La disinformazione fa confusione sui soggetti del referendum
Un’altra delle argomentazioni utilizzate contro il referendum sulla cittadinanza riguarda il fatto che i minori già oggi possano ottenere la cittadinanza italiana a 18 anni e, di conseguenza, non servirebbe accorciare da dieci a cinque gli anni di residenza legale in Italia richiesti per poter avanzare la domanda di cittadinanza italiana.
Innanzitutto, è importante precisare che può richiedere la cittadinanza italiana al compimento dei 18 anni – ed entro il 19° anno di età – solo chi è nato in Italia da genitori stranieri e vi ha risieduto legalmente e ininterrottamente fino alla maggiore età, rispettando tutti i requisiti richiesti dalla legge.
Chi invece è nato all’estero, in un Paese fuori dall’Unione europea, ma è arrivato in Italia da minorenne può richiedere la cittadinanza italiana al raggiungimento della maggiore età seguendo l’iter per residenza, che attualmente prevede almeno 10 anni di residenza legale continuativa sul territorio. In alternativa, può acquisirla automaticamente nel caso in cui uno o entrambi i genitori ottengano la cittadinanza italiana.
Il punto principale, però, è che il quesito referendario non riguarda i minori, ma gli adulti che arrivano in Italia dall’estero. Ad oggi, per poter chiedere la cittadinanza, è necessario dimostrare di aver vissuto nel Paese per almeno dieci anni consecutivi, oltre a soddisfare una serie di requisiti come l’assenza di condanne penali gravi, una condotta conforme ai valori della Costituzione italiana, la conoscenza della lingua italiana e la disponibilità di adeguati mezzi economici di sostentamento insieme al regolare adempimento degli obblighi fiscali. Il referendum, quindi, non introdurrebbe alcun automatismo.
Come racconta nel video pubblicato sul sito di Internazionale l’attrice e attivista Tezeta Abraham (dal minuto 01:18), lasciare invariato il requisito dei dieci anni di residenza può tradursi, nella pratica, in un’attesa doppia per ottenere la cittadinanza. Questo accade perché, per molti cittadini stranieri, non è facile dimostrare una residenza continuativa né soddisfare i criteri economici richiesti, a causa delle difficili condizioni lavorative e abitative, soprattutto nei primi anni di permanenza in Italia.
Il referendum sulla cittadinanza è stato al centro di una narrazione polarizzata fin dal primo giorno. Molti degli argomenti contrari, rilanciati sui social e in alcune dichiarazioni politiche, si sono basati su dati decontestualizzati o su presupposti errati. Una confusione alimentata anche da strategie politiche che preferiscono puntare sull’astensione anziché aprire un confronto pubblico, finendo per esasperare il dibattito e accentuare le divisioni sociali.
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