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La guerra di propaganda israeliana si è spostata sui social

Inchieste indipendenti hanno svelato il nuovo corso della propaganda di Tel Aviv, fatto di influencer a libro paga e reti social coordinate

21 ottobre 2025
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La mattina dello scorso 26 settembre Benjamin Netanyahu ha tenuto un contestato discorso all’assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York. Il premier israeliano ha utilizzato toni molto duri, respingendo le accuse rivolte a Israele di aver commesso un genocidio nella Striscia di Gaza con la risposta militare all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, negando in toto la possibilità della creazione di una Stato palestinese accanto a quello israeliano – possibile soluzione del conflitto in Medio Oriente approvata con larga maggioranza dall’ONU – e attaccando i Paesi occidentali che hanno recentemente riconosciuto lo Stato della Palestina. Poco prima dell’intervento del premier israeliano, decine di rappresentanti di vari Paesi hanno lasciato l’aula per protesta. Il segnale di un clima internazionale fortemente critico nei confronti del governo israeliano.

La sera dello stesso giorno il leader israeliano ha partecipato a due eventi privati in cui il clima è stato invece completamente diverso: un incontro con un gruppo di influencer statunitensi ebrei organizzato dal Console Generale di Israele a New York, Ofir Akunis, e una cena dello Shabbat, in qualità di ospite d’onore, con amici stretti e VIP che lo sostengono politicamente. In questi appuntamenti Netanyahu è stato definito un protettore del popolo ebraico ed è stato ringraziato per aver reso «non più così facile uccidere gli ebrei».

Durante l’incontro con gli influencer è però tornata in ballo la questione legata all’isolamento internazionale di Israele. La partecipante Debra Lea, giovane influencer trumpiana ebrea e opinionista fissa a Fox News con profili social da oltre 100mila follower ciascuno, ha chiesto a Netanyahu come riconquistare il sostegno nell’opinione pubblica statunitense verso Tel Aviv, drasticamente in calo dopo due anni di guerra a Gaza, dove sono stati uccisi decine di migliaia di civili palestinesi e la Striscia è quasi completamente distrutta

La risposta del primo ministro israeliano non si è fatta attendere: «Dobbiamo reagire. Come possiamo reagire? Con i nostri influencer. Penso che dovreste parlare anche con loro, se ne avete la possibilità, con quella comunità: sono molto importanti», aggiungendo che  «dobbiamo combattere con le armi adatte ai campi di battaglia in cui siamo impegnati, e le più importanti sono quelle sui social media».

Queste parole di Benjamin Netanyahu non sono passate inosservate. Come riportato da diversi media israeliani (e non solo), sarebbero infatti la prova di un’operazione di influenza già in atto negli Stati Uniti, tenuta lontana dalla luce dei riflettori e decisa dal governo israeliano per cercare di recuperare consensi nel Paese storico alleato di Israele, pagando influencer amici per diffondere propaganda israeliana. 

Un piano che si inserisce in una strategia più ampia che, come vedremo, comprende anche vere e proprie operazioni segrete di influenza, con campagne di disinformazione alimentate da reti coordinate che puntano a destabilizzare il dibattito pubblico dei Paesi nemici.

L’operazione in codice “Esther Project”

Come ha ricostruito il quotidiano israeliano Times of Israel, in base a documenti depositati presso il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (DOJ), è recentemente divenuto di dominio pubblico che «una società chiamata Bridges Partners LLC è stata incaricata di gestire una rete di influencer nell’ambito di un progetto denominato in codice “Esther Project”». 

Nella comunicazione che questa società ha dovuto consegnare in conformità al Foreign Agents Registration Act (FARA) si legge che lo scopo è «contribuire a promuovere lo scambio culturale tra Stati Uniti e Israele» e che l’incarico è gestito da una divisione tedesca dell’agenzia di pubbliche relazioni globale Havas per conto del governo di Israele. Il FARA è una legge statunitense del 1938 che impone a individui o entità che agiscono nel Paese come “agenti” di committenti stranieri in veste politica di rivelare al DOJ i propri rapporti, attività e finanze.

 

Screenshot del documento ufficiale depositato dalla società in base al FARA

Nei documenti allegati, continua il quotidiano israeliano, viene mostrato che la società Bridges Partners LLC, di proprietà dei consulenti israeliani Uri Steinberg e Yair Levi, è stata fondata nel giugno 2025 nel Delaware e che per reclutare e coordinare influencer dei social media con sede negli Stati Uniti sono stati previsti pagamenti fino a 900mila dollari distribuiti su più mensilità. 

I contratti di questa operazione di influenza prevedono un dettagliato piano tariffario: 60mila dollari in pagamenti anticipati per il reclutamento degli influencer e lo sviluppo della strategia, 140mila dollari per la fase di sviluppo – con alcuni degli influencer che iniziano a pubblicare e per l’inserimento di altri influencer – e stanziamenti mensili fino a 250mila dollari destinati alle commissioni degli influencer, alla produzione e ai costi di agenzia. Infine, altri 50mila dollari vengono stanziati «per il riepilogo della campagna e la consegna del contenuto finale», si legge sempre negli allegati depositati. Il piano prevede uno sviluppo graduale, con l’inserimento da tre a sei influencer alla volta, ognuno dei quali dovrà pubblicare 25-30 contenuti al mese sulle varie piattaforme social. Viene programmato anche lo sviluppo di partnership con agenzie di marketing con sede negli Stati Uniti. Times of Israel racconta inoltre che «i documenti elencano anche i pagamenti a una serie di appaltatori, il che suggerisce che il progetto non riguardava solo il pagamento diretto degli influencer, ma anche la costruzione di un intero ecosistema di supporto, tra cui la produzione di contenuti, la conformità legale e l’analisi delle campagne, per sostenere la rete per diversi mesi». 

La campagna social, in base a quanto scritto nel documento, sarebbe partita a luglio 2025. Ad oggi non si conoscono pubblicamente tuttavia i nomi degli influencer coinvolti in questa operazione. Secondo un avvocato specializzato in FARA sentito dal magazine del Quincy Institute for Responsible Statecraft, think tank statunitense specializzato nella politica estera degli Stati Uniti, gli influencer stessi sono tenuti a registrarsi come agenti stranieri: «Chiunque distribuisca materiale propagandistico e altro materiale informativo destinato al pubblico degli Stati Uniti per conto di un’agenzia governativa straniera dovrebbe essere reso noto da qualche parte, anche potenzialmente presentando una breve registrazione». 

A settembre 2024, ad esempio, il dipartimento di Giustizia statunitense ha incriminato due dipendenti di RT, un’emittente radiotelevisiva russa controllata dallo Stato, con le accuse di cospirazione – proprio per aver violato il FARA – e di riciclaggio di denaro. Secondo l’accusa i due avevano finanziato segretamente un’operazione di influenza russa negli Stati Uniti con 10 milioni di dollari, coinvolgendo diversi influencer statunitensi di destra attraverso una società con sede in Tennessee chiamata Tenet Media, fondata a novembre 2023 dalla commentatrice canadese di estrema destra Lauren Chen e da suo marito Liam Donovan, e collegata a opinionisti di destra e pro-Trump. Gli influencer coinvolti hanno affermato che non erano a conoscenza della fonte dei finanziamenti e di essere stati ingannati.

Il Jerusalem Post sottolinea che la spinta a sfruttare gli influencer segue il consiglio che Netanyahu ha ricevuto lo scorso maggio da Charlie Kirk. In una lettera privata inviata al premier israeliano, l’attivista statunitense di estrema destra e volto noto del movimento trumpiano MAGA assassinato lo scorso 10 settembre, aveva avvertito che persino all’interno degli ambienti conservatori ed evangelici il sostegno a Israele si stava affievolendo, esortando il governo a trattare le battaglie narrative sui social media e nei campus universitari con la stessa serietà con cui si affrontano i fronti militari. 

Tra i suggerimenti di Kirk, continua il quotidiano israeliano, c’era quello «di dare voce ai giovani ebrei, di inviare gli ostaggi liberati in tournée di conferenze negli Stati Uniti e di investire in quella che ha definito una “Israel Truth Network”» per contrastare quella che considerava la disinformazione online contro Israele e la guerra ad Hamas. Un suggerimento che il governo israeliano sembra, appunto, aver accolto. Già ad agosto 2025 a diversi creator statunitensi è stata concessa dal ministero israeliano per gli Affari della Diaspora la possibilità di entrare a Gaza, dove i media internazionali sono stati invece banditi; lo scopo era quello di diffondere online propaganda israeliana sulla guerra, come ad esempio la negazione della carestia nella Striscia, che è stata ampiamente documentata questa estate dall’IPC, un gruppo di esperti sostenuto dalle Nazioni Unite che valuta l’insicurezza alimentare e la malnutrizione a livello globale.

Ora l’emersione pubblica dell’operazione di influenza “Esther Project”, scrive la Jewish Telegraphic Agency, aggiunge «nuove informazioni sull’attuale e radicale sforzo diplomatico di Israele, in quello che i funzionari israeliani hanno iniziato a definire un “ottavo fronte” nella guerra combattuta finora dal Paese a Gaza», cioè quello dell’informazione a livello globale che, secondo critiche interne, il governo di Netanyahu starebbe perdendo con il conseguente isolamento politico a livello internazionale. Questa operazione completa infatti un accordo separato e più ampio che prevede un contratto da 1,5 milioni di dollari al mese stipulato sempre da Israele con Brad Parscale, ex stratega della campagna elettorale del presidente Donald Trump, che dietro l’obiettivo dichiarato di combattere l’antisemitismo negli Stati Uniti prevede «piani per l’implementazione di strumenti basati sull’intelligenza artificiale: campagne SEO mensili che utilizzano la piattaforma di intelligenza artificiale MarketBrew e sforzi per modellare i risultati dei chatbot», precisa ancora l’agenzia la Jewish Telegraphic Agency.

Le operazioni di influenza contro l’Iran

Ma Israele ha gestito e finanziato anche un’operazione segreta digitale su larga scala, in questo caso animata da centinaia di falsi profili in lingua persiana per influenzare il dibattito pubblico dello storico nemico, l’Iran, e amplificare le richieste di ripristino della monarchia della dinastia Pahlavi (e le sue politiche filo occidentali), finita nel 1979 con la rivoluzione islamica guidata dallo ayatollah Ruhollah Khomeini.

Questo è quanto ha scoperto un’inchiesta pubblicata il 3 ottobre 2025 dal quotidiano israeliano Haaretz, che ha parlato con cinque fonti a conoscenza diretta del progetto. In base a quanto riferito dalle fonti, questa campagna ha incluso account falsi su piattaforme come X e Instagram e utilizzava l’intelligenza artificiale per diffondere narrazioni, elaborare messaggi e generare contenuti contro il regime iraniano. Parte di questi account risultano essere stati aperti nel 2022, quando in Iran le proteste contro l’obbligo dell’hijab raggiunsero l’apice con la morte di Mahsa Amini, arrestata dalla polizia morale a causa della mancata osservanza della legge sull’obbligo del velo, mentre altri sono stati creati simultaneamente a giugno 2025 durante la cosiddetta “guerra dei 12 giorni” tra Israele e l’Iran.

Haaretz racconta inoltre che questa non sembra essere l’unica operazione digitale israeliana sul tema. I ricercatori del Citizen Lab dell’Università di Toronto, che studia le minacce digitali come spyware e disinformazione, hanno scoperto e analizzato un’altra campagna di influenza pro-Israele su X in lingua persiana basata sull’utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale. I risultati di questo lavoro – pubblicati lo scorso 2 ottobre e verificati in modo indipendente anche dallo stesso quotidiano israeliano – hanno svelato l’esistenza di una rete coordinata, denominata “Prisonbreak”, di oltre 50 account in lingua persiana, ritenuti falsi sulla base di molteplici indicatori, che hanno diffuso narrazioni e disinformazione per incitare il pubblico iraniano alla rivolta contro la Repubblica Islamica dell’Iran. Una pratica online non molto diversa da quella usata da attori filo-iraniani contro Israele.

Tutti gli account di questa rete scoperti dai ricercatori sono stati creati nel 2023, ma sono rimasti inattivi fino all’inizio del 2025 quando sono entrati in azione sia singolarmente sia in maniera coordinata. La loro attività si è intensificata in maniera particolare con la guerra di Israele contro l’Iran del giugno scorso, nel corso della quale il primo ministro israeliano ha rivolto un appello al popolo iraniano, invitandolo a ribellarsi contro «un regime malvagio e oppressivo». In particolare, secondo quanto ricostruito dal Citizen Lab di Toronto, l’episodio più eclatante che collega la rete “Prisonbreak” a Israele è la campagna condotta da questi account il 23 giugno 2025 mentre l’esercito israliano era impegnato a colpire con diversi attacchi aerei il carcere di Evin a Teheran, dove vengono trattenuti anche i prigionieri politici e noto per le denunce di maltrattamenti e torture ai detenuti

Gli attacchi alla struttura carceraria, scrivono i ricercatori citando analisi di fonti OSINT, si sono verificati tra le 11:17 e le 12:18 (ora locale iraniana) del 23 giugno 2025. Alle 11:52, prima che i media iraniani riportassero le prime notizie sull’attacco, diversi account della rete hanno iniziato a scrivere di esplosioni nell’area della prigione, spacciandosi in questo modo per iraniani residenti nella zona. Poco dopo mezzogiorno, mentre i media iraniani iniziavano a riportare le prime notizie dell’attacco, uno di questi profili ha pubblicato il video di un’esplosione nella prigione, suggerendo che questa fosse la causa dei rumori segnalati dagli altri account. Il video è stato creduto reale e ripreso da media occidentali e dal ministro degli Esteri israeliano su X. Due giorni dopo, il 25 giugno, la BBC ha dimostrato che si trattava di un falso, molto probabilmente creato con l’intelligenza artificiale.

A partire dalle 12:36, poi, con i bombardamenti che sarebbero terminati alle 12:18, continua l’analisi, la rete di questi account ha inziato a invitare esplicitamente la popolazione di Teheran a raggiungere Evin e liberare i prigionieri, pubblicando anche dichiarazioni rassicuranti come «l’attacco finirà ora» e «la zona è sicura». I ricercatori del Citizen Lab dell’Università di Toronto affermano che il falso video della prigione di Evin «si è rivelato essere solo uno dei tanti contenuti prodotti e amplificati dalla rete in relazione alla Guerra dei 12 Giorni». «Dopo un’ulteriore analisi della cronologia dei post e dei contenuti della rete PrisonBreak, riteniamo che la loro narrazione principale fosse quella di un cambio di regime in Iran. Ciò appare coerente con altri tentativi di promuovere il rovesciamento della Repubblica Islamica osservati nello stesso periodo, attribuiti ad agenzie governative israeliane e denunciati in una recente inchiesta giornalistica», continuano i ricercatori.

La rete ha diffuso anche false notizie attribuendole a media reali. Ad esempio, sono stati pubblicati screenshot o video che riproducevano alcuni presunti contenuti della BBC Persian, canale televisivo britannico che trasmette in persiano. In uno di questi veniva riportato un articolo intitolato, in italiano, “Funzionari in fuga dal Paese; alti funzionari lasciano l’Iran uno dopo l’altro”. La BBC Persian ha smentito di aver mai pubblicato quei contenuti. Questa tecnica disinformativa è stata utilizzata anche dalle operazioni di disinformazione filorussa, con la diffusione di servizi video o articoli attribuiti a diversi media occidentali in cui venivano condivise notizie inventate che puntavano a screditare l’Ucraina o i governi ritenuti nemici dal Cremlino. La rete “PrisonBreak” ha anche utilizzato video modificati o condivisi in maniera fuorviante per veicolare false informazioni sulle proteste in Iran. In diversi casi questi profili hanno condiviso video suggerendo di averli girati nel proprio quartiere, quando invece, tramite una verifica successiva, i ricercatori hanno scoperto che erano contenuti riciclati e utilizzati in maniera ingannevole per dare credibilità alle pubblicazioni dell’operazione.  

Alcuni dei falsi contenuti attribuiti alla BBC dalla rete "PrisonBreak", individuati dai ricercatori del Citizen Lab dell'Università di Toronto

Il Citizen Lab dell’Università di Toronto non è riuscito a certificare in maniera oggettiva la regia dietro questa campagna. Le prove raccolte consentirebbero tuttavia di concludere che lo scenario più probabile è quello di un coinvolgimento del governo israeliano, direttamente o tramite una società appaltatrice. «L’attività dei profili sembra essere stata sincronizzata, almeno in parte, con la campagna militare condotta dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF) contro obiettivi iraniani a giugno», scrivono i ricercatori: «Riteniamo che, sebbene tecnicamente possibile, sia altamente improbabile che una terza parte, senza una conoscenza preventiva dei piani delle IDF, sia stata in grado di preparare questi contenuti e pubblicarli in un lasso di tempo così breve».

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