
Gli scienziati americani vogliono scappare da Trump
Mentre le politiche della Casa Bianca mettono in crisi la scienza, l’Europa approva un piano che potrebbe attirare i ricercatori dagli Stati Uniti
I primi 100 giorni, poco più di tre mesi, sono il periodo al termine del quale tradizionalmente si fa un primo bilancio dei risultati ottenuti da una nuova amministrazione. Quello della seconda presidenza di Donald Trump, per ciò che riguarda la scienza, è già dirompente. «Sono quasi certamente i primi 100 giorni più gravidi di conseguenze che gli scienziati negli Stati Uniti hanno sperimentato dalla fine della seconda guerra mondiale», ha scritto la rivista Science. E non sono conseguenze positive.
Le implicazioni sono tali che nelle ultime settimane si è iniziato a discutere della possibilità che gli scienziati americani siano costretti ad abbandonare un Paese sempre meno ospitale per loro e a cercare asilo altrove, magari in Europa. Il 5 maggio, durante una conferenza alla Sorbona, l’Università di Parigi, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, alla presenza del presidente francese Emmanuel Macron, ha presentato “Choose Europe for Science” (“Scegli l’Europa per la Scienza”). Si tratta di un piano dell’Unione europea che ha l’obiettivo di stanziare 500 milioni di euro nel triennio 2025-2027 per attrarre ricercatori dall’estero. Ufficialmente non è stato pensato per essere una risposta alle politiche trumpiane, ma il contesto e la tempistica sono evidenti. «Il ruolo della scienza nel mondo odierno è messo in discussione. L’investimento nella ricerca di base, libera e aperta è messo in discussione. Che gigantesco errore di calcolo», ha detto von der Leyen.
Il più importante leader mondiale a mettere oggi radicalmente in discussione il ruolo della scienza è Trump. Licenziamenti di massa, realizzati o minacciati, nelle agenzie di ricerca; l’attacco alla libertà accademica e il congelamento di miliardi di dollari di finanziamenti a diverse università, tra cui quella di Harvard, prese di mira per le proteste studentesche contro la guerra a Gaza, i programmi di inclusione o ricerche etichettate come “woke”; l’attacco alle scienze ritenute nemiche dell’ideologia trumpiana, tra tutti quello sferrato contro la NOAA, l’agenzia che si occupa di oceani, atmosfera e clima che rischia di vedere praticamente smantellato il suo intero ramo di ricerca.
Secondo un’analisi di Science, nei primi tre mesi della seconda presidenza Trump si è già verificato un rallentamento del flusso dei finanziamenti per la ricerca in alcuni dei principali enti governativi, tra cui la National Science Foundation (NSF). Istituita nel 1950, la NSF è l’agenzia federale che finanzia la ricerca in tutti i settori tranne la medicina, che è invece di competenza dei National Institute of Health (NIH), un ente che è il più grande erogatore al mondo di finanziamenti per la ricerca biomedica. Rispetto allo stesso periodo del 2024, in questi due enti, oltre che nei dipartimenti (i ministeri americani) dell’energia e della difesa, la spesa è già crollata del 53 per cento. Una riduzione che, come nota Science, è il risultato della frenata alla spesa pubblica imposta dalla Casa Bianca e che ha già «seminato il caos nella comunità scientifica, con ricercatori, università, aziende che si chiedono che ne sarà dei fondi che si attendevano».
Se questi sono stati i primi giorni c’è da chiedersi come saranno i prossimi, dato che la seconda presidenza Trump ha davanti a sé ancora quasi quattro anni. Un’indicazione è già arrivata dalle prime bozze del bilancio del governo federale per il 2026. Nelle settimane scorse la Casa Bianca ha preparato un documento, che delinea un quadro di tagli senza precedenti alla ricerca. Anche se alcuni di questi dovessero essere rivisti o respinti dal Congresso, il solo fatto di proporli è allarmante perché indica una volontà politica ostile, quella di fare a pezzi la scienza invece di continuare a farla fiorire.
Secondo quanto riporta la rivista scientifica Nature, nel bilancio disegnato dall’Amministrazione Trump la NSF e la NIH subirebbero un taglio, rispettivamente, del 50 e del 40 per cento circa. Non ne uscirebbe indenne praticamente nessuna ricerca scientifica che il governo federale svolge in diversi dipartimenti e agenzie governative. I tagli proposti colpiscono la già citata NOAA, ma anche la NASA, i Centers for Disease Control and Prevention, la Environmental Protection Agency e altre agenzie, insieme ai dipartimenti dell’agricoltura e a quello dell’energia. Molta della ricerca di cui la Casa Bianca vuole sbarazzarsi è quella che si scontra con le politiche trumpiane, come quella sul clima, le energie rinnovabili, la conservazione degli ecosistemi e delle specie. Ma non viene risparmiata nemmeno la scienza più lontana dalle controversie ideologiche, come l’astrofisica.
La comunità scientifica negli Stati Uniti è impaurita e frastornata. In un sondaggio realizzato a fine marzo dalla rivista scientifica Nature su un campione di più di 1.600 scienziati americani, il 75 per cento di loro ha risposto di considerare la possibilità di lasciare gli Stati Uniti «dopo gli sconvolgimenti creati da Trump». I più propensi all’idea di trasferirsi in un altro Paese sono i ricercatori che sono all’inizio della loro carriera. In un sondaggio successivo, il 94 percento degli scienziati intervistati si è detto «preoccupato» per il futuro della scienza americana. Nello stesso tempo, e come conseguenza, anche gli scienziati non americani iniziano a pensare che gli Stati Uniti non siano più un Paese ospitale per la ricerca. Per l’83 per cento di loro, l’attuale situazione politica rende meno probabile l’ipotesi di intraprendere una carriera scientifica negli Stati Uniti.
In appena tre mesi, l’amministrazione Trump è riuscita a rendere il futuro della scienza nel suo Paese così fosco da mettere in discussione una tendenza storica. La prospettiva di una “fuga dei cervelli” è qualcosa che gli Stati Uniti non hanno mai sperimentato. Per gran parte del secolo scorso, questo Paese ha rappresentato un rifugio per gli scienziati, com’è accaduto a quelli europei che negli anni ‘30 sono fuggiti dal fascismo e dal nazismo. Pensiamo a biografie di scienziati come Albert Einstein ed Enrico Fermi. Oggi questa tendenza potrebbe invertirsi. Se ciò accadesse, data l’importanza che ancora oggi rivestono gli Stati Uniti per la ricerca globale, sarebbe un disastro non solo per loro ma, come scrive Nature, sarebbe «una battuta d’arresto per la scienza mondiale e probabilmente uno dei più grandi atti di autolesionismo scientifico che il mondo moderno abbia mai visto».
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