
Foto manipolate e dati falsati: le strategie della disinformazione antiabortista
Ecco come funzionano le campagne dei movimenti “pro vita”
Le campagne antiabortiste si reggono sulla disinformazione e sul tentativo di suscitare una reazione emotiva in chi legge e ascolta. Sia in Italia che all’estero, un mezzo molto diffuso tra i movimenti cosiddetti “pro vita” (o anti scelta) per raccontare l’aborto come «prima causa di morte al mondo» – quindi una minaccia per gli esseri umani, da contrastare con ogni mezzo – è la manipolazione dei dati. In questo senso, una delle tattiche più utilizzate è quella di accostare le principali cause di morte – tratte da fonti autorevoli come l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) – al numero annuale di interruzioni volontarie di gravidanza (73 milioni, sempre secondo l’OMS).
Comparare questi gruppi di dati, però, è fuorviante e scientificamente scorretto. Innanzitutto il conteggio delle cause di morte registra i decessi di persone nate vive. Da un punto di vista scientifico e legale, invece, l’aborto non interrompe una vita autonoma ma una gravidanza in corso, quindi non equivale alla morte di una persona. Equiparare un embrione a una persona adulta deceduta per malattia coronarica – la prima causa di morte al mondo – non è un’operazione scientifica, ma ideologica.
Un altro problema è che vengono confrontate categorie eterogenee: le principali cause di morte (malattie coronarica, infarto, broncopneumopatia cronica ostruttiva, infezioni alle basse vie respiratorie, alcuni tipi di tumore, etc.) sono patologie. L’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), invece, è una procedura medica, in alcuni casi salvavita. Paragonarle è un’operazione ingannevole, come porre sullo stesso piano i decessi dati dagli interventi chirurgici e quelli causati dagli incidenti stradali.
In aggiunta, questi calcoli non considerano i contesti in cui gli aborti vengono effettuati. A livello globale il 45 per cento delle interruzioni volontarie di gravidanza non è sicuro e di questi un terzo viene eseguito in condizioni precarie, da persone non formate che utilizzano metodi pericolosi e invasivi. Gli aborti clandestini, categoria in cui rientrano tutti gli aborti non sicuri, avvengono soprattutto in contesti o Paesi in cui l’accesso all’IVG è ostacolato e il tasso di mortalità è più di 200 su 100.000 interruzioni di gravidanza. Questa è la ragione per cui, secondo il Guttmacher Institute – ONG che promuove la salute e i diritti sessuali e riproduttivi – gli aborti non sicuri sono tra le tre principali cause di mortalità materna, insieme all’emorragia e alla sepsi da parto. Mortalità materna però, non dell’embrione o del feto.
In piena pandemia da Covid-19, una strategia simile è stata utilizzata dalla disinformazione per comparare il numero di aborti e i decessi causati dal virus, arrivando a sostenere che «il secondo viene combattuto, il primo è incoraggiato, anche se fa un numero di morti infinitamente superiore». Questo tipo di manipolazione dei dati ha rafforzato l’idea che l’interruzione volontaria di gravidanza sia una scelta egoistica, cercata da chi non si cura della morte altrui, «un omicidio di Stato» quando l’accesso è garantito dalla legge. Parallelamente, si è dato vigore all’idea per cui la pandemia fosse sopravvalutata sul piano del rischio personale e collettivo, tanto che «l’aborto è nella maggior parte dei casi libero, il vaccino pare proprio che si correrà il rischio che diventi obbligatorio».
Il simbolismo del feto
Insieme ai dati selezionati in maniera fuorviante per generare un effetto dirompente, i movimenti anti abortisti utilizzano le immagini. Articoli, volantini, contenuti social, gadget e striscioni sono tutti corredati da fotografie false o manipolate di embrioni e feti. Le immagini vengono volutamente alterate: le dimensioni sono ingigantite per ottenere una ricaduta emotiva su chi le guarda, ritraendo feti o embrioni quasi completamente formati (come alla fine del primo trimestre, quando gli organi e gli arti sono presenti) seppur nelle prime settimane di gestazione, oppure ricorrendo a immagini decontestualizzate, come il prodotto di un aborto in fase avanzata presentato come l’esito di un’IVG avvenuta a poche settimane di gravidanza.

Questa tecnica è stata adoperata anche in uno dei film più conosciuti – anche in Italia – della campagna anti abortista: “Unplanned. La storia vera di Abby Johnson”, distribuito negli USA dalla casa produttrice cristiana Pinnacle Peak Pictures e in Italia da Dominus Production. La pellicola racconta la storia di Abby Johnson, che ha lavorato per otto anni per Planned Parenthood – l’organizzazione statunitense no profit che si occupa di diritti riproduttivi – per poi diventare un’attivista antiabortista.
Il film mostra quello che viene raccontato come il dietro le quinte di una clinica per aborti, presentata come alla ricerca di profitto e incurante della vita delle donne (e degli embrioni) che lì si presentano. Ci sono alcune scene in particolare prive di riscontro scientifico e volutamente inaccurate, così da generare un impatto emotivo notevole nel pubblico. Viene raccontata ad esempio un’IVG farmacologica vissuta dalla protagonista anni prima del presente narrativo, in cui vengono espulsi grumi di sangue e cellule di grosse dimensioni, nonostante l’aborto risalisse alle prime settimane di gravidanza.
Un’altra scena ben studiata per essere in linea con la campagna antiabortista è quella dell’IVG chirurgica a cui Abby assiste. La procedura viene raccontata attraverso il monitor dell’ecografia, inquadrato dalla telecamera e in cui si vede la cannula che smembra un feto già completamente formato nonostante le tredici settimane di gestazione. Oltre alle dimensioni ingigantite del feto, l’inesattezza sta nel fatto che l’aborto chirurgico non viene svolto con guida ecografica a meno che non ci siano delle complicazioni.
L’immagine dell’embrione, in primo piano per darne un’idea ingigantita, quasi di un bambino pronto a nascere, non è di certo nuova. Il fotografo svedese Lennart Nilsson è diventato celebre proprio per una serie di scatti di questo tipo, pubblicati nel 1965 sulla copertina e all’interno della rivista Life. La foto di copertina non fu in realtà scattata nel grembo materno, ma in studio: il feto ritratto era stato abortito poco prima e poi posizionato in un acquario per ottenere l’effetto desiderato. Solo una delle immagini incluse nel servizio di Life fu davvero endoscopica – cioè scattata all’interno dell’utero pochi istanti prima dell’IVG – e mostrava un dettaglio ravvicinato del volto di un feto di quindici settimane.
Nilsson aveva avuto accesso privilegiato alla clinica ginecologica dell’ospedale Sabbatsberg di Stoccolma, dove il personale medico lo avvisava in anticipo degli aborti per permettergli di fotografare i feti subito dopo gli interventi, prima che i corpi perdessero l’aspetto “vitale”. Le rare immagini ottenute direttamente all’interno dell’utero erano realizzate durante operazioni chirurgiche invasive con tecniche fotografiche altrettanto invasive, inserendo un obiettivo endoscopico all’interno del corpo della donna. Prima della pubblicazione, tutti gli scatti venivano ritoccati per evitare che i soggetti – chiamati “bambini” – apparissero come corpi senza vita. Paradossalmente, queste immagini di feti abortiti – e poi quelle contenute nel suo libro fotografico A Child Is Born del 1965 – vennero poi diffuse in tutto il mondo come simboli della vita nascente, impiegate nella propaganda anti abortista e usate in pubblicazioni destinate alle donne incinte.
Come scrive la scienziata e scrittrice Laura Tripaldi nel volume Gender tech (Laterza, 2023) a proposito del feto, «l’unico modo che abbiamo per osservarlo – per costruirlo culturalmente e scientificamente come un’icona della vita – passa attraverso la sua trasformazione in un corpo morto, chirurgicamente asportato dal contesto materiale che ne rende possibile l’esistenza. Se osservare un feto in un barattolo significa, come vorrebbero gli anti-abortisti, “guardare in faccia la realtà”, questa “realtà” che si sta guardando è stata resa possibile soltanto a condizione di un’implicita operazione di smembramento, che trasforma un corpo, quello del feto, in un soggetto, e, nello stesso colpo di bisturi, ne oggettifica un altro, quello della donna».
Eppure anche le dimensioni reali di ciò che viene espulso da un utero con un aborto sono ormai a portata di click. MYA Network, un progetto medico e attivista che si occupa dell’accesso all’aborto negli Stati Uniti, spiega che il tessuto abortivo non assomiglia a quello che la maggior parte delle persone si aspetta e lo mostra con delle immagini tratte da IVG avvenute a 5, 6, 7, 8, e 9 settimane (per rendere l’idea, in Italia è possibile accedere all’IVG nei primi 90 giorni di gravidanza, un limite in linea con gli altri Paesi europei al netto di alcune eccezioni). Basta confrontare una reale immagine di un feto a otto settimane con quella proposta da una qualsiasi campagna antiabortista per notare le profonde differenze.

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